Ospite è il termine italiano che traduce il latino hospes. Da hospes ospedale, dove si accoglie l’infermo per guarirlo; ostello, dove si accoglie il pellegrino perché possa rigenerare le sue forze e progredire nel cammino; osteria, dove si dà pane agli affamati e vino agli assetati; ospizio, dove spesso ci si prepara ad essere ospitali nei confronti del nemico più radicale della nostra vita: la morte. Ci abbiamo provato, ma, fra tanti luoghi costruiti sulle fondamenta lessicali dell’accoglienza benevola, manca quello che ospita noi: nemmeno una lontana parentela fra il carcere e l’ospitalità.

Marcello Matté

 a cura della Redazione di “Ne vale la pena” di Bologna

 

Nessuna parentela

DIETRO LE SBARRE

 Se ci fosse…

Il carcere, in ospitalità, regge il confronto con tutte le strutture dove ce la si aspetterebbe (come ospedali, hotel…), perché qui, quando arrestano qualcuno, c’è sempre posto e, nel caso in cui mancasse, siamo così ospitali che ci si stringe un po’. Purtroppo altre ospitalità all’interno di questo “mondo a parte” non ce ne sono.

Ci sono procedure, regolamenti scritti e non scritti, a cui, volenti o nolenti, ci si deve adattare. L’unica fortuna in cui bisogna sperare è di trovare qualche amico o conoscente che riesca a offrire quell’ospitalità che serve a sentirsi meno soli. In ogni caso, un buon prete non manca mai, in nessun istituto. Per il resto sto scavando nella mia memoria… ma non ho ancora trovato un’affinità tra la parola ospitalità e il carcere. Se ci fosse ospitalità tanta gente non entrerebbe nemmeno in carcere.
Se ci fosse ospitalità tanta gente non sarebbe detenuta.
Se ci fosse ospitalità tanta gente non tornerebbe a trovarsi detenuta.
Se ci fosse ospitalità tanta gente non uscirebbe di qui peggio di come ci è entrata.
Ma al giorno d’oggi, nella nostra situazione politica, parlare di ospitalità è delicato e a noi detenuti serve a riflettere ed a rimboccarci le maniche. Se ancora questa ospitalità non si trova nelle carceri, in parte ciò è anche frutto di una società che ancora nutre odio e desiderio di vendetta verso chi è colpevole di un reato, senza sapere cosa realmente accade qui e sottovalutando quello che da qui deriva.

Gabriele Baraldi

 I riti dell’ospite

Se pensiamo all’ospitalità ci vengono in mente tante storie che raccontano di pellegrini accolti in convento durante il loro cammino, o, al contrario, di tutte le locande chiuse per Giuseppe e Maria, che si dovettero accontentare di una grotta riscaldata da un bue e un asinello. Oggi di ospitalità si parla molto, soprattutto in relazione ai migranti, che ci ricordano, nel presente, eventi che tante volte si sono verificati nella storia. Qui in carcere, possiamo noi, da “ospiti dello stato”, dare esempio di ospitalità? Quando vi è un nuovo arrivo in una cella o comunque in una sezione del carcere, quando il nuovo “inquilino” si trascina dietro a fatica vistosi sacchi neri con dentro le proprie cose, è lì che inizia una serie di rituali che caratterizzano l’accoglienza nel nuovo “stabile”.
Facendo conoscenza ovviamente c’è interesse anche sul reato per cui scontiamo la pena, e questo può essere un ostacolo ad una piena accoglienza, secondo un codice carcerario che condiziona, almeno inizialmente, la convivenza forzata.
Se tutto va bene si inizia con l’offerta dell’irrinunciabile tazza di caffè, davanti alla quale si scambiano le prime chiacchiere, cercando di sdrammatizzare con qualche battuta sui “comfort” della nuova dimora.
Si passa poi ad illustrare gli spazi dove sistemare il contenuto dei sacchi neri, fino ad arrivare all’elaborata procedura di sistemazione del letto.
Conclusi questi riti di iniziazione, comincia la curiosità da parte dell’intera sezione, con il moltiplicarsi, cella per cella, delle tazze di caffè. E così ognuno dà prova della propria maestria.
Nei giorni a venire, inizia il cerimoniale degli inviti a mangiare insieme, in quattro o cinque ammassati attorno ad un microscopico tavolo. Lì risiede il nucleo dell’ospitalità.
Questa routine, che diviene parte integrante della vita quotidiana in sezione, rischia di diventare quasi scontata, quando invece è proprio in quei momenti che anche la vera solidarietà viene fuori, magari con un sorriso dopo una telefonata a casa andata male o con una buona parola in un attimo in cui lo sconforto ha avuto la meglio.
In carcere, l’ospitalità, data o ricevuta, può sembrare quasi futile se non ci si ferma a riflettere sul suo vero significato: la capacità, nel luogo più inospitale possibile, di regalare ritagli di tempo fuori dalle paure e dalle solitudini, che inevitabilmente incombono sui nostri pensieri.

Gianluca Vallini, Giuseppe Gemito e Maurizio Bianchi

Sette giorni

Sette (compreso il riposo) furono i giorni che Dio impiegò per realizzare il suo capolavoro, il cielo e la terra. Dio creò anche noi uomini, compresi noi, che ancora adesso usiamo sbadatamente le parole, come, ad esempio, il mio terreno, cosa mia, tu sei mio, lui è tuo ed io di nessuno. Ma in realtà qui niente è di nessuno, perché noi siamo ospiti e siamo stati anche accolti bene, perché Dio ha pensato veramente a tutto, mentre noi non facciamo altro che ignorare tutto, anzi contribuiamo a distruggere ed inquinare la terra che ci ospita.
Sette sono anche i giorni di ospitalità che ha a disposizione un detenuto appena arrestato. Forse non si usa più, oppure invece sì, perché in fondo siamo tutti uguali, e di fronte a problemi che ci riguardano da vicino il nostro cuore si intenerisce. Qui, in carcere, tutti noi abbiamo passato il primo giorno di galera. Sicuramente non è stato uno dei giorni migliori, per non dire il peggiore.
L’ospitalità del carcere non è un granché: ti tengono all’oscuro di tutto, chiuso in una cella fredda e senza letti, in attesa di fare le visite necessarie e farti il cartellino per poi mandarti nel reparto “infermeria” dove trascorrerai altri sette giorni, chiuso venti ore al giorno, e dove ti chiedi se il carcere è così o c’è dell’altro.
Per fortuna c’è chi ti dice qualcosa, quindi, dopo aver appreso che andrai in sezione dove si sta meglio, aspetti che finiscano quei sette giorni di inferno e ti prepari per l’impatto con gli altri detenuti.
E qui, come dicevo prima, da buoni padroni di casa, o di “cella”…, interviene il nostro animo buono. Logicamente parlo al plurale, perché la maggior parte di noi si comporta come me: io, ad esempio, accolgo l’ospite aiutandolo a fargli il letto, dopo la presentazione e dopo aver bevuto un bel caffè.
Gli dico chiaramente che per una settimana sarà ospite, perciò non deve assolutamente far nulla, ma solamente guardare ed imparare come si vive in galera. Imparerà a conoscere il fornellino da campeggio, come si cambia la bomboletta del gas, come si fa il letto con i nodi alla carceraria, come si compila il modulo di richiesta, eccetera.
In sette giorni conoscerà più o meno tutti e, a sua volta, sarà pronto ad accogliere nella “cella sua” un nuovo ospite con la giusta cordialità. Ops, che stupido! Sbadatamente ho usato il termine “cella sua”. Ma, in realtà, non dobbiamo dimenticarci che in carcere siamo ospiti e, come tali, niente è di nessuno.

Pasquale Acconciaioco