Who want to live forever

La paura della morte è alla radice delle barriere che alziamo

 di Emanuele Curzel
docente di Storia medievale all’Università di Trento

 Abramo è senza figli. Cioè senza futuro, senza una prospettiva che dia un senso alla sua vita, al suo impegno, al suo vagare. «Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Eleva a Dio il suo lamento: «A me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede» (Gen 15, 2.3).

Non si riconosce in chi gli succederà: Elièzer non è parte del suo sangue, del suo clan; non proviene da Ur dei Caldei; forse non crede nemmeno nello stesso Dio. Impossibile, per Abramo, pensare che il senso della propria vita passi attraverso di lui.

 Le tre vie

Il singolo uomo è mortale, il nostro destino biologico è segnato; nella storia umana la ribellione a questo limite si è diretta in tre direzioni, e l’opzione è stata inestricabilmente connessa alla propria visione del mondo, ne è stata condizionata e l’ha condizionata a sua volta. La prima risposta è la negazione: la ricerca di piaceri, di palliativi, di obiettivi ravvicinati che oscurino la mèta e tacitino - fin quando possibile - l’angoscia. La sete di immortalità è placata negando la sete. La seconda via è quella delle persone, dei popoli e delle culture che credono in una prospettiva “altra”, in un mondo “al di là” che non conosce il limite della corporeità, nel quale la dimensione più profonda e personale di noi stessi ritrova, dopo la morte, nuova esistenza e nuove possibilità. La terza direzione è quella seguita dalle persone, dai popoli e dalle culture che, partendo dal presupposto dell’unitarietà del reale, trovano una risposta alle proprie angosce nella continuità, attraverso le generazioni, dei contenuti vitali (linguistici, culturali, politici, artistici) che il singolo vede permanere in chi gli sopravvive.
Il nostro mondo, da due o tre secoli, come l’antico Israele cerca di placare la sua sete di immortalità in questa terza direzione. La fede in un aldilà sembra confinata in settori minoritari o prende la forma di cascami esoterici che non sembra siano in grado di condizionare davvero le scelte collettive. Dio è chi mi promette una discendenza, una continuità; è il Gruppo (di volta in volta: la Nazione, la Razza, la Classe, la Cultura…) nel quale mi riconosco, perché in esso trovo quegli elementi che mi permettono di credere che ciò-che-mi-rende-me-stesso non vada a scomparire con la mia morte. Sono consolato dalla consapevolezza che il mio vivere e il mio morire trovano senso nel fatto di aver dato vita (biologicamente o culturalmente) ad altri esseri che mi somiglieranno, che saranno altri me stessi.

 Sempre più giù

Da qualche decennio una parte rilevante del mondo più arricchito, e il nostro Paese in particolare, vive una peculiare situazione di implosione demografica. Nel 1964 in Italia la fecondità era a quota 2,7; dal 1974 al 1981 passò da 2,4 a 1,6. Oggi il numero di figli per donna si è assestato, in Italia, attorno a 1,3-1,4, in una “fascia bassa” che comprende anche Germania, Spagna, Portogallo, Grecia, Giappone, Polonia, Corea del Sud. Un po’ più sopra, con tassi che stanno tra 1,5 e 1,8 (comunque ben al di sotto del livello che conserva stabile la popolazione) stanno Cina, Iran, Brasile, Russia. Poco sotto 2 sono Vietnam, USA, Gran Bretagna e Francia; poco sopra Turchia, Bangladesh, Messico, India, Indonesia e molti stati del Nordafrica. Su livelli più alti stanno le Filippine (3,0), l’Egitto (3,3), il Pakistan (3,5); la Nigeria, l’Etiopia e svariati altri paesi africani stanno tra 4 e 6 (la media mondiale, nel 2015, era a 2,45; nel 1950 era quasi 5).
Le conseguenze sono chiare. Gli europei stanno estinguendosi. Ogni generazione successiva non potrà - al netto dei fenomeni migratori - che essere due terzi di quella precedente. Gli europei, che nel 1950 erano più di un quinto dell’umanità, nel 2007 sono diventati un decimo e nel 2050 non saranno più del 5-6% di un mondo di dieci miliardi di persone. Nel giro di un secolo o due l’italianità e chissà quante altre identità che si pretendono eterne diventeranno poco più di reperti archeologici, da mettere in vetrina accanto a quelle degli ittiti.
I gruppi però non sono entità oggettive: che lo vogliamo o no i nostri figli e i nostri nipoti, biologici o culturali, si rimescoleranno e potranno essere il lievito di un mondo ricco, grande e complicato. Ma si tratta di una prospettiva che, quando viene esposta, lascia sgomenti la grande maggioranza degli interlocutori. La reazione più frequente è quella della negazione, della fuga, del divertissiment qui e ora (nel cibo o nel sesso: che, a loro modo, sono pure promesse di sopravvivenza). Coloro che invocano soluzioni drastiche a difesa della discendenza (in modo razzista: che sia razzismo culturale o razzismo biologico poco importa) sembrano (e si sentono) persino più responsabili, giacché prendono sul serio il problema.

 Xenomania

Si dice che la xenofobia (la paura del diverso) sia sempre più diffusa. Mi si permetta di dubitarne. Non è vero che abbiamo paura della diversità: noi la cerchiamo. Cerchiamo di individuarla nell’altro per poterlo qualificare come diverso da noi. Perché quando l’alieno prende l’aspetto dei tuoi cari e minaccia di prendere il tuo, sono guai (si pensi al film Blade Runner) dato che così l’uguaglianza sarebbe totale. Dobbiamo cercare le orecchie a punta, gli occhi arrossati, la reazione anomala alla domanda banale. Solo grazie a quella differenza possiamo distinguere “noi” e “loro”: perché “noi” vogliamo, anzi dobbiamo avere un futuro e “loro”, invece, vanno lasciati fuori del perimetro di chi merita di vivere.
Le differenze che intercorrono tra i singoli esseri umani sono, in realtà, minime. Acquistano un qualche significato solo nel momento in cui sono funzionali a creare una barriera. Basta un errore di pronuncia per disconoscere la fratellanza. Di quell’errore siamo in cerca (altro che xeno-fobia! si tratta invece di xeno-mania) per distinguere tra “noi” e chi potrebbe minacciare di sostituirci. Quella minima differenza è il motore di tante forze politiche la cui esistenza terminerebbe ben presto se non riuscissero a suscitare e mantenere in noi l’angoscia della sostituzione: temiamo un futuro in cui non ci saremo noi.
Che risposta dare a questa angoscia? Riesco a formulare una risposta solo in termini ultimativi: l’angoscia della sostituzione è un demone che va combattuto, delegittimato, ripudiato. Ma è un demone di grande forza, e lo si può combattere solo su un piano: quello esistenziale e religioso. Ogni altro piano è inclinato e scivoloso e ci porta dall’angoscia alla paura, dalla paura alla rabbia, dalla rabbia all’odio.
Abramo ebbe da Sara l’atteso erede. Ma l’episodio del “sacrificio di Isacco” ci ricorda che la conseguenza scandalosa e incomprensibile dell’azione di Abramo, obbediente all’ordine di Dio, poteva essere il rientro in scena di Eliézer di Damasco, o di qualche altro erede in cui Abramo non si riconosceva. Ma il patriarca era disposto, uccidendo Isacco, ad accettare quel destino. Da quella accettazione nacque non solo una discendenza ma anche la benedizione per «tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,18).

Dell’Autore segnaliamo:
Nell'anno del Signore. Date e nomi per la storia della Chiesa
Àncora, Milano 2017, pp. 328