Come mamma t’ha fatto

Il portico, l’utero, la capanna: apologia dell’architettura ospitale

 di Gian Luca Zoli
architetto, libero professionista, capo Delegazione FAI di Ravenna Gruppo di Faenza

 L’essere figlio di un appassionato latinista mi porta naturalmente a riflettere sull’ambivalenza della parola hospes che rimanda a colui che ospita, ma anche a colui che è ospitato, a chi apre la propria porta e a chi viene accolto; conosciuto o estraneo che sia.

L’aver poi scelto come professione e come campo di indagine l’architettura mi rimanda a quel luogo che concretizza quella stessa parola attraverso mattoni, travi di legno e calce: l’ospedale.
Oggi percepiamo gli ospedali come luoghi notoriamente tristi ed impersonali ma se pensiamo a quando sono nati le cose cambiano. Nel Basso Medioevo malati e pellegrini potevano trovare ricovero presso le

Due cuori…

Ma allora e più in generale che caratteristiche devono avere, se esistono, i luoghi accoglienti? Riferiamoci al primo spazio, quello primigenio, quello di cui tutti abbiamo fatto esperienza e quello che condiziona per tutta la vita il nostro concetto di ospitalità: la pancia materna. Tra nascituro e gestante c’è un rapporto biunivoco, come nella parola hospes. La superficie a disposizione e il corpo del nascituro crescono di pari passo.
Con la nascita, il modo di essere nel mondo del bambino è pressoché identico: vive raggomitolato su sé stesso, sempre vicinissimo alla madre che gli garantisce il nutrimento e il contatto. Così avviene nella culla prima, nel lettino poi, e ancora nel girello, per aiutarlo a camminare. Nel tempo il sistema si ripete alla ricerca di un nascondiglio segreto sotto al tavolo o dietro le tende.
Il presupposto è lo stesso: lo spazio è ospitale perché circoscritto, misurato e percepito attraverso la propria presenza, il proprio corpo, la propria voce. Scienze e neuroscienze sono concordi nell’affermare quanto sia importante, certo, ma anche condizionante, il modo in cui è vissuta la gravidanza. Il senso di accoglienza nasce lì. Il senso dell’ospitalità nasce lì: da una madre che accarezza il proprio grembo e dal nascituro che risponde con un piccolo colpetto d’approvazione.
E può essere accogliente un appartamento? Può esserlo il condominio nel quale è presente l’appartamento? Non c’è dubbio che, se si hanno ospiti, li si riceva nella cosiddetta zona giorno. Noi italiani prediligiamo la zona pranzo: è attorno ad un tavolo ben imbandito che si manifesta l’accoglienza. Meglio se vicino ad un camino. Si potrebbe dire che non ci può essere ospitalità senza condivisione, fosse anche un caffè all’idraulico, accorso per una perdita.
I condomini fino agli anni Ottanta erano accoglienti: tutto il sistema, si direbbe in termine tecnico, connettivo (vale a dire ingressi, androni generosi, vani scale di un certo decoro) metteva e mette in effetti in connessione più persone, permettendone la socializzazione.
Nei condomini di oggi, frutto di un interesse più speculativo che sociale e finalizzato all’ottimizzazione dei metri quadri degli appartamenti da vendere, l’ospitalità è compromessa da ingressi così risicati che se il tuo vicino di pianerottolo vuol passare con le buste della spesa interrompe necessariamente le quattro chiacchiere che stavi facendo con la signora del terzo piano e che non vedi mai perché ha una certa età e così non la rivedi per altri due mesi.

 … e una capanna

Ancora: un luogo ospitale può essere anche produttivo? Sono ormai molte le aziende, specie le più grandi, che oltre a far progettare luoghi di lavoro belli e stimolanti, li stanno dotando di spazi al proprio interno non proprio convenzionali: mense, asili nido, palestre… L’interesse alla condivisione e a rendere ospitale il proprio luogo di lavoro ha in questi casi una chiara volontà produttiva. Un’impiegata infatti che non debba correre a casa durante la pausa pranzo, che non debba preoccuparsi del bambino da portare all’asilo e che non debba affrettarsi, magari chiedendo ore di ferie, per andare a riprenderlo, è un’impiegata meno stressata, più sorridente e più concentrata.
Potremmo quindi desumere che ogni architettura può essere ospitale purché abbia almeno uno o più luoghi che siano accoglienti, condivisi, e che mi facciano sentire un individuo. Il ragionamento può essere esteso ovviamente anche alle chiese, alle caserme, alle città stesse.
Tuttavia non è forse vero che ogni atto fondativo, di ogni architettura, avviene attraverso l’erezione di un muro? E l’erezione di un muro non è forse il primo atto fondativo che separa l’io dal non io? La mia famiglia dalla tua? La mia città dalla tua? La mia religione dalla tua?
Forse non ci può essere una vera architettura ospitale, se non quella fatta di soli tetti sostenuti da colonne, e senza muri. L’archetipo architettonico per eccellenza: la capanna. E se il mondo avesse bisogno di un Neoprimitivismo?

Dell’Autore segnaliamo:
Avere una casa o essere a casa?
Rapsodia edizioni, Roma 2015, pp. 103