Riflessioni di una pendolare pericolosa
Le parole non nascono sotto i cavoli e non spuntano come funghi
di Lucia Lafratta
della Redazione di MC
Può darsi che il cosiddetto popolo apprezzi l’uso sconsiderato delle parole come viene declinato in questi tempi di manifestazioni di forza muscolare, soprattutto utilizzando, appunto, quel potente muscolo che è la lingua. E allora è necessario soffermarsi ogni tanto sull’origine delle parole, come si dice sulla loro etimologia, il loro intimo significato, per lasciarsi stupire e cercare di capire.
Nella mia vita da pendolare mi sono ritrovata seduta di fianco a un ragazzo nero. Arriva il controllore e punta diretto a lui, gli chiede con fare sgarbato (senza cortesia, come spiega il DELI, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana edito da Zanichelli) il biglietto. Lui non ce l’ha, non parla italiano, è terrorizzato. Dico al controllore che lo pago io, il biglietto. Il pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni non gradisce, ma, di fronte all’insistenza gelidamente cortese, cede. I passeggeri attorno dissentono. Non dal controllore, dal mio intervento. Noi due, ospite bianca e ospite nero di questa Italia contemporanea, ci intendiamo con lo sguardo. È arrivata la mia fermata.
A caccia di un significato
Perché la parola ospite viene usata, non solo nella lingua italiana, ma anche nelle altre lingue romanze, quelle derivate dal latino, per individuare sia colui che dà ospitalità che colui che la riceve? Il latino hospes aveva il doppio significato: colui che ospita, che accoglie nella propria casa e colui che è accolto in quanto forestiero, straniero.
Il DELI non è munifico di spiegazioni: il termine ha doppio significato, ma senza etimologia evidente. Il vocabolario Sabatini-Coletti fa risalire la voce al latino hospitem, colui che riceve lo straniero, forse riduzione di un precedente hostipotis, signore dello straniero, composto da hosti, straniero, e potis, padrone. E il vocabolario Treccani riporta entrambi i significati fondamentali di hospes «in quanto la parola alludeva soprattutto ai reciproci doveri dell’ospitalità».
Ecco una traccia più precisa. L’hospes è dunque il padrone di casa. Colui che, come padrone di casa, dà ospitalità al forestiero, a chi passa, si ferma e ha bisogno di tutto, di acqua, cibo, riposo e, soprattutto, di uno sguardo accogliente; colui che, più e oltre che il dovere, si prende il diritto - è il padrone - di dare ospitalità. E il forestiero, rifocillato nel corpo, nell’anima e nel cuore, grato, si sente impegnato a ricambiare l’ospitalità ricevuta. Padrone e forestiero si sentono legati nel patto di ospitalità, di reciproca accoglienza: entrambi ospiti l’uno dell’altro.
Padroni di aprire le porte
Non risuonano le parole “vogliamo essere padroni a casa nostra!”? Sì, appunto padroni a casa nostra, padroni dei nostri beni, di tutte le nostre facoltà mentali e spirituali e, dunque, liberi di esercitare il diritto di aprire la porta a chi bussa e ha bisogno della nostra accoglienza, a colui che, accolto sotto il portico della nostra casa (come non ricordare i portici della basilica di San Pietro resi da papa Francesco luogo di accoglienza per chi non ha casa) accoglierà noi. A proposito di portici, tutti conoscono quelli di Bologna, candidati ad essere patrimonio dell’umanità Unesco. La loro origine si fa risalire al 1288, quando negli Statuti della città fu inserito l’obbligo per i cittadini di costruire portici e mantenerli: un bene privato ad uso pubblico. Un luogo che il privato cittadino aveva l’obbligo di costruire, per di più in muratura, non in legno - e anche poi di mantenere a proprie spese - allo scopo di metterlo a disposizione della collettività. Padroni a casa loro, i bolognesi, ma con un preciso obbligo giuridico di rendere parte dello spazio privato un luogo ospitale per tutti.
Le parole non nascono sotto i cavoli e non spuntano come funghi, il doppio significato ci racconta che nessuno chiede ospitalità se non ne ha bisogno, nessuno se ne va da casa per il solo gusto di bussare alle porte di altre case per bere l’acqua e mangiare il pane d’altri, nessuno lascia la famiglia, genitori, moglie, marito, figli, nessuno rinuncia a vedere quella luce del sole che è solo lì, in quel luogo, né a quei suoni e odori per suoni e odori sconosciuti. E chi è costretto a farlo dai casi della vita porta sempre nella mente il pensiero e nel cuore il desiderio di avere, un giorno, una casa in cui accogliere chi lo ha accolto, acqua e cibo per imbandire la tavola alla quale far sedere l’ospite di un tempo.
Il filo delle parole
Nel profondo sud in cui ho a lungo vissuto, così come in questo nord di poderi coltivati da contadini che si toglievano il cappello solo per dormire e solo davanti al “patrone”, non ci si poteva rifiutare di sedersi a prendere un bicchierino e mangiare un biscottino; neppure pensabile che l’ospitante padrone di casa non offrisse né che l’ospitato non accettasse l’offerta.
Ospite, il signore dello straniero, e cioè il padrone di casa: il termine hostis, quello che abbiamo imparato a tradurre come straniero, e nemico, è presente anche con il significato dello straniero al quale erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo romano, del cittadino romano, in un vincolo di uguaglianza e reciprocità. Hostis, per indicare colui che, straniero, è ospitato presso il popolo romano e con questo crea un rapporto, una relazione di reciproco scambio. Come tra ospite e ospitante, appunto. E, come riporta il DELI, dal verbo hostire, col significato di rendere uguale, deriva il termine hostia, la vittima sacrificale che serve a compensare l’ira degli dei. Vittima che, dal IV secolo d.C., passa a indicare il pane offerto durante la messa. Tutto torna, se seguiamo il filo delle parole e del loro intimo significato.