Attorno al fuoco della fraternità

Le parole e l’esempio di Francesco, per sognare la strada futura 

di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

Caro Francesco,

nonostante l’aureola d’oro zecchino che nobilita la spericolata dolcezza del tuo volto, anche adesso ti piace definirti «ignorans et idiota»? Anche adesso che papa Bergoglio da cinque anni porta il tuo nome? Soprattutto adesso, immagino, che intorno al papa, non ci sono più soltanto le sirene del consenso facile e dell’incenso adulatorio!

Ti scrivo a nome mio, ma non dimentico di essere frate minore cappuccino. Non ho titoli o diritti per rappresentare la famiglia presso di te… ma un figlio potrà bene dire al padre quello che ha nel cuore! Non trovi? Ecco, tu sai quanto sia difficile il momento storico che sta vivendo il mondo, la Chiesa nel mondo… e noi frati con lei! Io credo che non troveremo nessuna via di uscita dalle nostre crisi senza lasciarci destabilizzare, almeno un po’, da quello che avete scritto tu e i frati dei primi tempi: «Si guardino i frati, ovunque saranno, negli eremi o in altri luoghi, di non appropriarsi di alcun luogo e di non contenderlo ad alcuno. E chiunque verrà da essi, amico o nemico, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà. E ovunque sono i frati e in qualunque luogo si incontreranno, debbano rivedersi volentieri e con gioia di spirito e onorarsi scambievolmente senza mormorazione». Ad una prima lettura mi era sembrato che in questo brano aveste accostato, così, con scarsa coerenza logica, tre questioni diverse, il possesso, l’accoglienza, la mormorazione. Poi ho letto e riletto e credo di aver acciuffato il filo del ragionamento.
Comincio dalla mormorazione. Evidentemente fin dall’inizio, nonostante il fuoco sacro delle origini, il male della maldicenza alle spalle dell’assente anche voi l’avete sperimentato. Da sempre si fa alleanza con i presenti sparlando degli assenti? Penso di sì, ma prima o poi anch’io sarò assente e allora, secondo te, chi sarà gettato nel pozzo della fraterna, si fa per dire, disistima? Ovviamente io e così, con il coltello tra i denti e il bazooka in bocca, incapace di riconoscere il bene che l’altro potrebbe essere per me, ognuno vive sotto l’assedio di un nemico che ha il volto di tutti e quello di nessuno. Che l’altro abiti dall’altra parte del corridoio o del Mediterraneo, non importa: io sono già pronto a sparare! Così l’inganno del sé che pensa di salvarsi negandosi alla relazione mi condanna alla perpetua prigionia in un immobilismo autocentrato.
Per fortuna ci sei tu Francesco che mi chiedi di accogliere con gioia e di onorare il fratello. Mi ricordi che non esiste solo Fort Alamo e i nemici che ci assediano. In tempo di crociate, la fraternità tu l’hai sperimentata anche tra i musulmani, in Egitto, a Damietta, diventando amico del sultano al-Malik al-Kamil a colpi di dialogo; in tempi di profonda e motivata (!) insicurezza sociale, volevi che anche i briganti trovassero pane e formaggio nei nostri conventi e così il guardiano di Montecasale, affascinato da un giustizialismo mai passato di moda, dovette inseguire i briganti per monti e per valli per chieder loro perdono!
Anche noi abbiamo a portata di passo vie di profezia evangelica da indagare e intraprendere con coraggio. Sì, ma riusciremo a inoltrarci su di esse? Il dubbio mi nasce dalla seconda questione, la proprietà. Sai Francesco, qualche volta ho l’impressione che l’ossessione del possesso ci tenga in trappola, incollati come mosche alle ragnatele degli spazi che occupiamo già. Appesantiti da troppe paure, contagiati da una mondanità che fatichiamo a riconoscere come tale, cerchiamo sicurezze nelle strutture e troviamo burocrazia e pesi insostenibili di gestione. Quando scendo dal letto col piede sbagliato arrivo a pensare che il futuro sia ormai tutto alle nostre spalle… non pretendo che il nastro del tempo si riavvolga all’indietro. A me piace essere frate minore in questo tempo!
Desidero solo avere la libertà di cercare con umiltà e realismo le nuove vie della radicalità evangelica. Certo, vedo e apprezzo l’accoglienza che nei nostri conventi viene fatta quotidianamente. Le mense per i poveri; l’animazione missionaria; l’ascolto partecipe di chi sta attraversando momenti difficili; la celebrazione della riconciliazione; l’accompagnamento dei giovani nei labirinti del discernimento affettivo, vocazionale e professionale; il pacifico e multiforme esercito di volontari laici che collaborano con noi, donando con gioia il loro tempo e le loro capacità… tutto questo, e chissà quanto ancora, c’è, è bellissimo, e tu stesso, lo so, ne sorridi compiaciuto.
Ma sai com’è l’accoglienza, terza questione, che tu ci inviti ad esercitare con coraggio, lungo tutti i gradi dell’angolo giro, verso buoni e cattivi, amici e nemici: chiede per forza di cose di essere ostinatamente creativi. Voi lavoravate nei campi con i contadini più poveri o a servizio dei fratelli lebbrosi, non solo accoglievate chiunque bussasse alle vostre porte, ma voi stessi, se la ricompensa per il lavoro svolto non era sufficiente per tutti, andavate a chiedere aiuto di porta in porta. E l’accoglienza così non procedeva a senso unico.
Ora Francesco lascia che io condivida con te due intuizioni. Io sogno frati che tornino a bussare alle porte delle case, per portare aiuto o riceverne, ma soprattutto per incontrare gli uomini là dove essi vivono, adattandosi ai loro orari e bisogni, ascoltando ciascuno e senza giudicare nessuno, portando a tutti la gioia del vangelo. Ecco, io sogno che i frati questuanti non siano confinati superficialmente, senza tentativi di traduzioni attualizzanti, nella teca da museo del folklore fratesco.
E poi io sogno una fraternità interprovinciale e interobbedienziale che si metta in cammino dietro a Colui che per essere uomo con gli uomini si svuotò di sé stesso assumendo la condizione di servo. Una fraternità minoritica che scenda fino a Lampedusa, prenda esempio dal papa e preghi baciando le croci che Franco Tuccio ricava dai relitti dei barconi, per contemplare e prendersi cura delle piaghe di Cristo, nelle ferite lasciate sui corpi e nei cuori sopravvissuti all’orrore delle carceri libiche. Una fraternità senza grandi mezzi e strutture, bisognosa e capace di associarsi agli uomini di buona volontà, credenti e non credenti, che sia per gli stranieri un benvenuto caldo e umano e per gli italiani una testimonianza di solidarietà fraterna e conviviale.
Forse qua e là in questa lettera lo spirito della scontentezza inconsolabile ha prevalso sul sussurro sognante dello Spirito, tu perdonami e abbi pazienza, scriverti di queste cose mi ha riportato ai primi fuochi della mia vocazione e tu sai quanto sia doloroso e necessario tornare a scaldarsi a quel fuoco. Perciò, Francesco, Il Signore con il fuoco del suo Spirito, conservi, purifichi e rinnovi il fuoco intorno al quale gli ospiti siedono, spezzano il pane, versano il vino e li condividono. 

                                                                                                                                                                                                                                                                          tuo frate Fabrizio,
                                                                                                                                                                                                                                               con gratitudine grande come il mare