Con l’intervento di padre Filippo, prosegue in Georgia il viaggio attraverso i luoghi missionari in cui sono presenti i cappuccini dell’Emilia-Romagna, facendosi guidare dall’esortazione Evangelii Gaudium di papa Francesco, prima di fare un salto a Camogli in Liguria, dove la Casa Stella Francescana delle suore Missionarie Francescane del Verbo Incarnato dall’inizio del 2016 è stata trasformata da casa per le vacanze a Centro di Accoglienza per ragazze immigrate

a cura di Saverio Orselli

 La dimensione sociale dell’evangelizzazione

 Alcune riflessioni libere di un missionario in periferia

 di Filippo Aliani
missionario cappuccino in Georgia

  Prima in Romania poi in Georgia

Ci sono alcune frasi nel capitolo IV dell’esortazione Evangelii Gaudium di Papa Francesco che mi hanno colpito e nelle quali mi ci ritrovo.

Alcune affermazioni sono alla base della scelta missionaria della mia vocazione. Infatti, quello che mi ha spinto a questa scelta, prima in Romania e poi in Georgia, è stata la possibilità che la missione offre di condividere con maggior radicalità la vita con chi è nel bisogno. In missione cadono certi muri e si è più aperti e liberi di condividere la realtà della gente.
Il papa dice che dalla natura missionaria della Chiesa «sgorga inevitabilmente... la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove». Ancora, ci invita ad amare «l’umanità che abita il mondo, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità». Quindi la dimensione sociale è parte integrante dell’annuncio cristiano. A me piace maggiormente chiamarla dimensione caritativa perché il termine “sociale” corre il rischio di ridurre il significato dell’impegno nel mondo del cristiano. Ricordo che in un’intervista Madre Teresa si arrabbiò quando paragonarono le sue suore e la loro attività a quella delle assistenti sociali. Praticamente si fanno le stesse cose, ma l’obiettivo e la motivazione dell’aiuto ai poveri è profondamente diverso: è parte del mistero dell’Incarnazione, di un Dio che si fa prossimo per liberare e redimere il suo popolo, che condivide la nostra vita, che non è indifferente alle nostre situazioni.
Il papa lo esprime in un modo bellissimo: «Quanto facciamo per gli altri ha una dimensione trascendente»! In missione si ha la possibilità di condividere maggiormente il dramma e la sofferenza di tante persone. Si condivide il loro limite, le loro povertà, le loro paure, le loro sofferenze e preoccupazioni del futuro. Si entra concretamente nelle case e quindi nella vita delle persone. E quindi si sente il peso di queste sofferenze. Fisicamente. Penso alla Romania, ai tanti ragazzi incontrati segnati dall’abbandono, la loro sofferenza, fragilità, inconsistenza, solitudine, paura del futuro... Penso alla Georgia, ai cattolici, minoranza pesantemente discriminata a causa della loro fede; ai giovani, consapevoli di non aver prospettive lavorative per costruire una famiglia; ai genitori, timorosi di battezzare cattolici i loro figli per non rischiare di mettere un “peso” sul loro futuro... Penso ad entrambi, dove il miraggio/necessità di emigrare per poter offrire un futuro alla famiglia e ai figli è fortissimo, ma mette a serio rischio l’esistenza stessa della famiglia.

Il sogno della Basiliade

In missione senti pesantemente tutte queste realtà che caratterizzano la vita delle persone, te le riversano addosso, te ne fai partecipe... e tante volte non sai cosa fare o dire. «Fossi al suo posto come mi comporterei?», viene tante volte da chiedersi. Oppure si scopre che si giudicano le persone e certi loro comportamenti con una facilità enorme, senza però guardare la loro storia, quello che hanno passato, le ferite che necessariamente li caratterizzano.
Ma «evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio», rendere presente Dio stesso che, attraverso la nostra opera si comunica, si fa toccare, si incarna. Ecco allora che non si è assistenti sociali perché entra in gioco la dimensione trascendente della carità. Attraverso la carità si rende presente Dio nella vita dell’uomo. Si diventa strumenti dell’incarnazione nell’oggi di Dio. A questo proposito mi piace sempre ricordare l’esempio di San Basilio Magno, uno dei Padri Cappadoci, Padre del monachesimo orientale, che fondò Basiliade, una vera e propria città della carità, per l’accoglienza dei poveri, dei malati, dei pellegrini, con laboratori di artigianato. Teologo e padre spirituale di altissimo valore, ma che coniugò benissimo l’amore a Dio con quello del prossimo, la spiritualità con la carità. Il papa parla della «mentalità dei Padri della Chiesa» segnata dalla fede che «esercitò una resistenza profetica, come alternativa culturale, di fronte all’individualismo edonista pagano». La fede ci chiede di creare una nuova mentalità, una nuova cultura, caratterizzata dalla comunione, dalla condivisione.
Per noi francescani poi ha un peso ancora più grande perché siamo chiamati ad essere profeti di fraternità. Ecco allora che la carità non può essere «una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso», così come la solidarietà «indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità» perché siamo chiamati a creare “strutture di bene”, una mentalità e una cultura di condivisione, di vera fraternità, capace di cambiare le sorti dell’umanità intera. E questo quindi apre la nostra azione come cristiani a tutti i livelli: politico, culturale, sociale, economico. Tutto diventa ambito in cui siamo chiamati a esercitare la carità. Ma purtroppo la nostra assenza o marginalità da questi ambiti è fortissima. Ci si limita a cose episodiche e non si lavora sulla struttura.
Il papa poi parla del «rischio di dissoluzione» delle comunità della Chiesa: «Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti». L’individualismo, l’indifferenza, l’egoismo caratterizzano anche la nostra vita (siamo figli della nostra cultura); la ricerca di una tranquillità di vita, il “borghesismo” spirituale, le mura che circondano i nostri conventi e che ci separano dall’incontro, dalla condivisione, dal sentire il peso schiacciante dei problemi che caratterizzano la vita di tanti... sono un grande pericolo per la nostra vita, per la nostra fede stessa. Perché è una fede monca e quindi non vera.
Abbiamo dei «ripari, personali e comunitari, – dice il papa – che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano». Anche se il rischio della mediocrità è sempre vivo, l’esperienza della missione aiuta maggiormente a tenere unite fede e carità. Ed è per questo che credo nei campi missionari, come possibilità di toccare con maggior forza la sofferenza di tanti e lasciarsi “commuovere” per creare una cultura della condivisione, una vera fraternità.

Vorrei concludere con una domanda che il papa ci fa: «Dio chiede a tutti noi: Dov’è tuo fratello?». Ma ancora di più mi viene da chiederci: «Dove siamo noi, rispetto ai nostri fratelli che soffrono?».