Riflessioni di un sommelier

Come imparare a gustare la bontà, talvolta un po’ acidula, della promessa

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 Se il verbo “promettere” fosse un vino, temo che non sarebbero molti gli appassionati intenditori a far la fila per cantarne le lodi fruttate dopo averne degustato la fragranza.

Non posso negarlo: non appena penso a quel verbo, anch’io mi ritrovo la bocca impastata di acidule delusioni.
Sarà il volontarismo esasperato e autoidealizzante delle mie promesse disattese; sarà la iattura delle promesse altrui non mantenute… comunque questo verbo non riconduce facilmente le mie sinapsi al ricordo della più dolce dolcezza sperimentata. E, tuttavia, non posso, anzi, non voglio arrendermi all’immediatezza di quella deludente acidità… i sapienti rabbini invitavano a cercare la profondità delle cose sostenendo che «noi non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo». Bisogna, dunque, cambiare “le cose”, ma anche, e soprattutto, quello che siamo. E poiché noi ora siamo la memoria del nostro passato, i riti ebraici e cristiani convergono proprio sul fare memoria delle promesse mantenute da Dio. La Pasqua è memoria sanante le ferite dovute ad ogni abbandono che lacera.
Sul monte Sinai lo stesso Dio ha rivelato a Mosè il suo nome e il suo volto. Per quanto resti problematica la traduzione di Es 3,14, il versetto che porta il Nome dei nomi, «Io sono Colui che sono», certo è che l’estensione temporale di quel verbo “essere” abbraccia tutto il tempo: il presente («Io sono»), il passato («il Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi» Es 3,15), il futuro (Dio promette una libertà che richiederà tempo e cammino, tentazione e lotta, peccato e misericordia). Ma qual è il contenuto della promessa divina? È la sua stessa amorevole prossimità al popolo oppresso: “Ricordati: come per i tuoi padri Io sono stato al loro fianco, così per te Io ci sono, così per i tuoi figli Io ci sarò. Sempre!”. Quella promessa era poi sfociata nel dono della libertà e della terra. Dio però si era vincolato alla relazione con il popolo, non al dono elargito. Se Israele non è fedele al patto stabilito, Dio non gli impedisce di sperimentare le conseguenze della sua scelta: non essendo opera delle mani dell’uomo, Egli non accetta di essere cosificato e non cosifica l’uomo che ama, così Israele, lontano da Dio, nell’esilio di Babilonia, dove le cetre sono appese ai salici e non si possono cantare i canti del Signore (cf. Sal 137), si troverà lontano anche dalla terra e dalla libertà. L’amore di Dio, infatti, non soffoca e non obbliga, Egli sa lasciare andare.

 I tre aromi del vino

Ne ricavo tre ingredienti indispensabili alle nostre promesse se vogliono essere povere tracce delle promesse di Dio nella storia degli uomini. Primo: destinatario. Dio promette prossimità solidale e liberante all’oppresso, ma, lo scrivo con qualche sgomento, all’oppressore non risparmia le piaghe, il pianto e neppure la morte. Questo ci impone, almeno, di non cantare nel coro di chi ai deboli promette piaghe, pianto e morte, e ai potenti ossequianti e pelose lusinghe. Secondo: libertà feriale. Stabilire legami d’alleanza interpersonali non equivale a sottoscrivere un contratto di compravendita che possa ridurre me, o l’altro, nella condizione di un bene di proprietà, sul quale il proprietario abbia inalienabile diritto di usufrutto. Un’alleanza si può stabilire solo tra persone libere, non può mai diventare una realtà statica di sovrano possesso, va continuamente e liberamente rinnovata. Terzo: senza scadenza. Una promessa autentica è ambiziosa. Per quanto possibile, accetta la sfida del tempo e desidera distendersi lungo tutto il suo procedere per quanto lento e lentissimo. Ha, cioè, la sfrontatezza di dire “per sempre”.

 La promessa incarnata

E poi ecco la sorpresa che non ti aspetti. Il liberatore non agisce più per mezzo di profeti, riservando a sé la distanza di un’inconoscibile alterità. Il liberatore in Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi, uomo con gli uomini, pianta la sua tenda in mezzo a noi. Come ogni uomo nasce e cresce, lavora e si riposa, suda e beve, ride e prega, mangia e piange. Poi, poche ore prima di salire al Golgota, per cambiare l’attitudine ancora malata del nostro palato, Gesù chiede a noi di spezzare il pane e di versare il vino in sua memoria. L’invito/comandamento ci viene dato mentre si fa memoria del passaggio del Mar Rosso (Pesach, Pasqua), e così siamo riportati indietro per rinnovare oggi e portare a pienezza il dono di grazia che fu dato con la liberazione dalla schiavitù. D’altra parte, siamo proiettati in avanti, al giorno della sua Crocifissione, perché quel pane è il suo corpo e quel vino il suo sangue ma, ancor più, siamo chiamati ad avere nostalgia del giorno in cui, alla fine dei tempi, ritornerà tra noi nella gloria, per essere Tutto in tutti.
Per noi, finché siamo, più o meno, «nel mezzo del cammin di nostra vita», se non vogliamo che nel nostro palato spadroneggi l’acidità degli abbandoni inflitti e subiti, sarà utile concentrare lo sguardo sull’Uomo della croce e su quel suo amore che lo com/promette e lo espone radicalmente, fino alla gloria paradossale del suo corpo nudo e sfigurato, innalzato su un patibolo ingiusto e crudele, che pare la negazione della libertà e dell’amore e viene, invece, assunto, con piena libertà, come radicale e incondizionato dono di sé. E proprio questa è la regalità autentica e vittoriosa, non i superpoteri che annientano il nemico, ma la nudità creaturale dell’uomo che senza paraventi, falsi pudori e improbabili siepi antirelazionali, si consegna alla paternità del Creatore. L’ultimo faraone, la morte, rimane sconfitto dalla debolezza del pane e del vino, che rimandano alla pelle nuda, ferita e torturata, non dall’acciaio delle armature e delle spade, o dalla forza distruttiva dei megatoni.

 Io risorgo!

Certo, se promettere compromette con questa radicalità, inevitabilmente noi siamo deficitari di fronte alla promessa assunta, e, tuttavia, se Dio è con noi anche nella morte, se riceviamo vita e amore in Colui che non aveva conosciuto peccato, e «Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21), allora io so che, nonostante quel deficit, non ci riuscirà di non tornare a promettere. E così va a finire che quel vino in fondo in fondo… in ogni caso, in faccia ai faraoni che scorrazzano per il mondo e nel nostro cuore bisognerà pure gridare per Cristo, con Cristo e in Cristo, e promettere loro a tutta voce, con i versi della poetessa afroamericana Maya Angelou, tradotti qui da me senza competenza e senza vergogna, che qualsiasi cosa accada, qualsiasi violenza sia compiuta, ancora io risorgo!

Fuori dalle vergognose
capanne della storia
Io risorgo
Su dal passato che nel dolore ha radice
Io risorgo
Io sono un oceano nero,
agitato e vasto
Sgorgando e crescendo
della marea io porto il peso.
Alle mie spalle ho notti
di terrore e paura
Io risorgo
Nell’irrompere d’un giorno
magnificamente luminoso
Porto i doni che i padri
hanno trasmesso
Io sono il sogno
e la speranza dello schiavo
Io risorgo
Io risorgo
Io risorgo.

(Ancora io risorgo, Still I rise, Maya Angelou 1928-2014)