La Parola crea, rivitalizza, espande. Senza incontrare ostacoli, eludendoli o aggirandoli, valica le sue stessa barriere con noncuranza. Creando terreno fertile, sia che si radichi nel cuore di un credente, sia che trovi accoglienza nei pensieri di qualcuno che tale dono non ha, ma è sinceramente proteso alla ricerca di un senso profondo dell’esistere. È questo secondo aspetto che di seguito vogliamo in parte analizzare: nel percorso di ricerca di Fabrizio De Andrè e di Erri De Luca.

Alessandro Casadio

Il sogno di Maria

una canzone di Fabrizio De André
tratta dall’album “La buona Novella”

Image 230Una ragazza vergine fa un sogno strano, di impressionante realismo, al termine del quale scopre di essere incinta. Se la leggiamo come dogma della fede, la storia ci appare un po’ ostica: da digerire senza commento se siamo cattolici credenti; da rifiutare senza indugio se non lo siamo. Rimarrebbe un affresco posticcio che c’è o non c’è, ma che poco riesce a spiegarci della vita, dell’essere, della metafisica e delle loro peculiarità. Toccò al non credente De Andrè, assumendo toni poetici di rara bellezza, quasi mistici, entrare con la sua lirica tra gli ambiti più razionalmente inspiegabili del concetto stesso di mistero, quale elemento in grado di congiungere il piano storico di una vicenda con il suo piano metafisico religioso. Abbandonata qualsiasi sicurezza predefinita, l’autore seguì il filo della poesia pura che lo portò forse, senza rimpianti, anche al di là delle proprie convinzioni per contemplare il mistero di questa giovane donna, futura madre di Gesù.

La ragazza Maria vuole capire cosa stia succedendo: se l’esperienza che sta vivendo sia opera di Dio. La consapevolezza di ciò che le sta succedendo si catalizza nello stupore della domanda dell’annunciazione - com’è possibile? da dove viene? - fino a sciogliersi nella dolcezza della melodia. È il necessario preambolo del suo “sì”, perché di Dio si fida e da lui accetta anche la confusione che può crearle; e noi con lei.

«Svanite in un sogno, ma impresse nel ventre»: è il mistero per eccellenza, quel qualcosa che sancisce l’incontro della carnalità, qui espressa con il termine volutamente crudo di “ventre”. A rafforzare il connubio carne-spirito, precedentemente, era stata usata l’espressione «contava una vertebra della mia schiena», Queste espressioni, che sembrano quasi solidificarsi sono in unione poetica con la frase conclusiva che anticipa enigmaticamente l’espressione «lo chiameranno figlio di Dio: parole confuse nella mia mente».

Inserita nell’album “La buona novella”, che ancora oggi riesce a far scandalo per come le parole prendono respiro nel contesto musicale, per come ci si abbandona al trasporto della poesia incuranti di una coerenza tematica, per come la relazione metafisica, nella lirica di un dichiarato non credente, passa ineludibilmente attraverso la forza della Parola. 

Daniele Fabbri