Un nuovo modo di dire schiavitù

L’economia globale ci porta a nuove, profonde, mancanze di libertà 

di Pietro A. Cavaleri
psicologo

 

In questi ultimi anni si è spesso parlato di “società senza padri”, alludendo non solo alla crisi della figura paterna nel sistema familiare attuale, ma più in generale alla crisi di ogni forma di autorità.

Da tempo l’obbedienza in quanto tale, dentro e fuori la famiglia, non è più considerata una virtù, non è più un valore positivo, ma solo una debolezza, il segno di una sottomissione passiva e acritica a qualcuno. È stato finalmente ucciso il padre e con la sua morte il giogo di ogni autorità è stato scrollato dalle nostre spalle. Adesso possiamo liberamente affrontare ogni tabù morale, possiamo ipotizzare qualsiasi forma di sessualità, di convivenza, di famiglia, di vita privata e pubblica. Le tanto attese “libertà civili”, una dopo l’altra, stanno divenendo ormai patrimonio indiscusso di ogni cittadino, l’espressione acquisita di una “nuova cittadinanza”, che non si piega più alla cieca obbedienza a regole o principi imposti dall’esterno, da una qualche autorità.

L’obbedienza a sé stessi, alla propria coscienza, alle proprie convinzioni, alla propria sensibilità, è ormai l’unica forma di obbedienza ammessa e concepibile. A volte abbiamo l’impressione che questa dilagante autoreferenzialità stia producendo attorno a noi un “grande disordine”, il frantumarsi irreversibile di un rassicurante sfondo condiviso fatto di stabili certezze. Ma è solo un attimo. L’inebriante sensazione di essere liberi, di poterci autodeterminare, supera ogni sorta di disagio, di incertezza, di insicurezza. Meglio il disordine creativo, ma scelto da noi, che l’ordine rassicurante voluto e imposto da un qualche padre. 

Il lato occulto delle libertà

Forse però, senza rendercene conto, continuiamo ancora a obbedire ad altri. Sono altri che stabiliscono le correnti della moda, che impongono i modelli culturali dominanti. Sicché finiamo tutti per guidare auto che si assomigliano. Facciamo tutti le stesse “vacanze di massa”. Veniamo tutti risucchiati dalla rete. Ci scopriamo, allora, “uniformati” alle tendenze del momento, ad esse obbedienti come bravi soldatini, allineati e coperti. E ci viene il dubbio che qualcosa non quadri, che forse la certezza di essere liberi, di poter esercitare la nostra autonomia sino in fondo non corrisponda del tutto a verità.
La sensazione di non essere liberi ci assale quando a cinquant’anni perdi il lavoro e non riesci a trovarne uno nuovo e ti senti impotente, fallito, svuotato. Oppure quando improvvisamente ti trovi in un pronto soccorso e sei posteggiato per giorni su una barella in un affollato corridoio, senza che nessuno ti dica se c’è posto per te nel reparto che dovrebbe curarti. Oppure quando tuo figlio ti chiede di fare l’università da qualche parte e tu gli dici di no, perché non sai nemmeno come arrivare a fine mese. È lì, in quei momenti, che ti accorgi di non essere veramente libero e di essere prigioniero di un “sistema”, forse pensato, organizzato e gestito da altri, magari a tua totale insaputa e malgrado il tuo parere più volte espresso nel segreto di un’urna.
Ti scopri, allora, obbediente e succube di un sistema che ti ha dato tutte le libertà civili desiderabili (tanto non costano), ma ti ha tolto tutto il resto: la certezza del lavoro, l’accesso all’istruzione di qualità, il diritto ad una sanità dignitosa e via discorrendo.

 Nelle mani di pochi

Ma a questo punto una domanda sorge legittima: il “sistema” esiste davvero o è solo un delirio paranoico di chi si sente sconfitto, fallito, impotente e vuole addossare ad altri le proprie frustrazioni, respingere le proprie responsabilità personali? Sociologi, economisti, osservatori politici di indiscussa autorevolezza concordano da anni nel riconoscere che il “sistema” esiste davvero e ha il volto dell’economia globale. Qualcuno, addirittura, arriva a sostenere che quello dell’economia globale è un sistema di tipo neo-feudale, nel quale il vertice è rappresentato dalla ristretta aristocrazia finanziaria, mentre l’ex ceto medio, ormai proletarizzato, e la folla di precari costituiscono i nuovi servi della gleba, non più dignitosi cittadini, detentori di diritti e di doveri, ma obbedienti e silenziosi sudditi a cui nulla è dovuto.
Pare che l’élite globale sia costituita da appena l’1% della popolazione, ma concentri nelle proprie mani circa il 60% della ricchezza mondiale. Pare, inoltre, che una concentrazione di risorse così elevata, a vantaggio di un gruppo così minoritario, non si sia mai registrato nella storia del genere umano. Per rafforzare il sistema e incrementare i propri straordinari privilegi, l’aristocrazia neo-feudale, l’élite globale, deve isolare, impaurire, omologare, ottundere le menti, il loro potenziale critico, la loro creatività, la loro capacità di relazionarsi, di collegarsi, di mettersi insieme. Bauman è stato forse il primo sociologo a scoprire, con lucida intelligenza, l’esistenza del nuovo sistema globale, a coglierne le dinamiche regressive, a individuarne gli esiti devastanti per la civiltà degli umani e per le loro comunità. Papa Francesco è forse oggi l’unica voce critica che, con crescente autorevolezza, continua a denunciare le contraddizioni del sistema e i suoi effetti disumanizzanti.

Tutta colpa del sistema?

Sia Bauman che Francesco concordano nel sostenere che il problema non è il sistema imposto dall’élite globale, quanto piuttosto l’individualismo che caratterizza la rimanente maggioranza, la nuova classe sociale chiamata precariato. L’individualismo alimenta l’isolamento sociale e il disagio psichico, ma nutre anche l’obbedienza acritica al sistema e ai suoi modelli culturali, espone maggiormente al potere incontrastato dell’élite, sostiene inconsapevolmente il regressivo processo di disumanizzazione dei contesti lavorativi e sociali. Esiste un potente antidoto all’individualismo e all’obbedienza inconsapevole verso il sistema. L’antidoto è la relazione con l’altro, con gli altri, la capacità di creare reti sociali dal basso, la disponibilità a partecipare, a fare la propria parte nella rigenerazione della comunità, nella ricostruzione della città.

Segnaliamo il volume:
ENRICO MOLINARI - PIETRO A. CAVALERI
Il dono nel tempo della crisi
Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, pp. 147