Il generale Amore, il colonnello Libertà

Il difficile rapporto fra obbedienza e coscienza nel cuore dell’uomo

 di Giovanni Salonia
frate cappuccino psicologo e psicoterapeuta

 

«Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo - cosa che non è molto indicato fare - allora io brinderei per il Papa.

Ma prima per la coscienza e poi per il Papa». È il teologo Ratzinger che nel suo L’Elogio della coscienza ama citare questa famosa battuta del Cardinale Newman. La coscienza come il luogo sacro della più radicale ed intima soggettività. L’uomo è uomo se decide la sua vita ubbidendo alla propria coscienza. Rivendicare il primato della coscienza altro non è che riconoscere la dignità del soggetto. Il rispetto della coscienza come “sacrario” inviolabile e originario dell’esistenza umana (GS, 16). E nessuno può sostituirsi alla coscienza dell’altro (lo ribadisce in modo categorico, sul registro educativo, papa Francesco in Amoris Laetitia). 

Coscienza o convivenza?

Ma la soggettività della coscienza apre un polemos - a tratti violento - quando i suoi orientamenti contrastano in modo inconciliabile con le richieste dei legami d’appartenenza a livello affettivo, religioso, istituzionale. Antigone - l’eroina della coscienza - accetta la morte per rivendicare la supremazia della legge scritta (dagli dei!) nel cuore nei confronti di quella formulata dal re Creonte. Ci si chiede allora: come conciliare la sacralità della coscienza con l’ethos dell’umana convivenza? Quale significato antropologico può essere inscritto in un rispetto della coscienza che produca frammentazione dell’umano convivere? Può coscienza sottrarsi e andare al di là delle norme scritte dagli uomini? E che senso ha la convinzione che la coscienza va seguita anche se erronea? In ultima analisi, ci si può fidare della coscienza? Interrogativi terribilmente seri che penetrano i punti nevralgici dell’umana convivenza. Anche se rimangono aperti al gioco imprevedibile della vita, richiedono punti fermi da cui prendere le mosse.
Se la coscienza necessita della consapevolezza per essere percepita, allora è premessa indispensabile precisare che si danno livelli differenti di coscienza: nei momenti in cui ci si risveglia dal sonno o si viene fuori da una profonda sedazione farmacologica, si ha una consapevolezza molto ridotta rispetto agli attimi di lucidità vivida e piena (ricordiamo che ‘risvegliati’ è il termine orientale per definire l’illuminazione). Appellarsi alla propria coscienza richiede, quindi, delle puntualizzazioni ben precise che costituiscono requisiti di base - condizioni sine qua non - di un discorso sulla coscienza. Sono necessari - in altre parole - percorsi di centratura su di sé (‘concentrarsi’ direbbe F. Perls). Paradossalmente ci si può appellare alla coscienza - «Questo è quello che mi dice la mia coscienza» - solo quando si è diventati consapevoli del rischio, mai esorcizzato del tutto, di “illudersi su se stesso” (risuona l’agostiniano “quaestio magna factus sum mihi”) e si è sperimentato “soi-même comme un autre” (P. Ricouer).
 Come da tempo sostengono i terapeuti della Gestalt (e adesso viene condiviso anche da psicoanalisti), si ascolta la propria coscienza se si è in ascolto del proprio corpo (che è, in ultima analisi, il luogo meno conosciuto e più genuino della nostra autenticità). «La coscienza non è una questione dell’anima - ha scritto il liturgista Bonaccorso - ma un modo di essere del corpo». L’eventualità di una coscienza erronea conduce ad uno snodo decisivo: come prende forma la coscienza? La coscienza si forma nel tempo e nell’intersoggettività. Sono necessari anni (circa tre) perché un corpo di bambino immerso in corpi umani possa “arrivare a se stesso” (Heidegger), “dare del tu a se stesso” (Kierkegaard), “raccontarsi” (Stern), dire “Io” e iniziare il cammino di poter rispondere delle proprie azioni (respons-abilità). I bambini - si sa - prima di aver ricevuto un’educazione formale, reagiscono spontaneamente contro l’ingiustizia. Essi dicono un sì spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa. La coscienza anche se innata emerge progressivamente: ha bisogno di altri umani. Come l’esperienza dei bambini ‘selvaggi’ ci mostra, per diventare umani bisogna avere/essere un corpo umano e crescere tra umani. Per la coscienza, come per il pensiero, si dovrà allora riformulare l’assioma cartesiano in: “cogito ergo sumus”. Ad essere umani, pienamente umani, si apprende, e si apprende dagli umani. 

Due diversi modelli antropologici

A questo punto la domanda cruciale riguarda i contenuti della coscienza: l’etica intima è innata o ingoiata? Viene scoperta o interiorizzata? L’istanza regolativa è esterna o interna? Emerge da costruzione sociale o da norme intime che regolano l’umano crescere e relazionarsi? A livello antropologico ci si chiede: l’istanza regolativa per gli umani è il Super-Io, questa legge esterna che deve essere introiettata per ragioni connesse al ‘disagio sociale’? Nel rispondere a questi interrogativi emergono due antropologie radicalmente differenti: quella del Super-Io e quella dell’autoregolazione della relazione. La prima rimanda alla favola del complesso di Edipo per cui ogni bimbo nasce inevitabilmente con il desiderio incestuoso della madre e l’istinto di soppressione del padre-rivale. Essendo istinti innati nella coscienza, si renderebbe dunque necessaria una legge esterna (il Super-Io, appunto) che li blocchi. In questo paradigma ogni intervento educativo (psicoterapia compresa) non può ambire ad altro obiettivo che non sia quello di fare accettare il principio della realtà e reprimere o sublimare gli istinti comunque indomabili.
L’altro paradigma sostiene che l’istanza regolativa non è esterna ma interna. I desideri incestuosi e patricidi del bambino non sono innati ma derivano dalle relazioni perverse con cui padre e madre strumentalizzano il bambino per le proprie conflittualità. Un bambino che cresce con cogenitori sereni e non viene strumentalizzato dai loro bisogni avvertirà la gioia e il calore di relazioni ordinate (ordo amoris familiare) ed accetterà in modo sereno (senza ‘disagio della civiltà’) la propria condizione di figlio. È la relazione il principio intimo di autoregolazione di cui ogni bambino è dotato. I due paradigmi (quello del Super-Io legato al complesso di Edipo e quello della autoregolazione della relazione) sono inconciliabili a livello antropologico e educativo. La formazione della coscienza nel primo paradigma si orienterà su divieti, sull’inevitabilità del principio della realtà, sul fare introiettare delle leggi; nel secondo paradigma l’intervento esterno avrà una funzione maieutica: non impone niente dal di fuori, ma sviluppa un dialogo permanente che cerca quell’adattamento creativo che integri individuo e ambiente. Una coscienza è formata quando vedrà le regole non come divieti ma come espressione della creaturalità e della relazionalità.
È interessante notare come la prospettiva delle terapie umanistiche e della Gestalt abbiano mutuato in fondo il paradigma paolino: la legge scritta nei cuori, lo Spirito dentro i nostri cuori come nuova legge. Anche i pagani - dirà Paolo - hanno inscritta nella loro coscienza la legge (1Cor 2,14-15). A questo punto sembra proprio che l’eventualità di una ‘coscienza erronea’ debba essere rimandata ad un deficit di discernimento, ossia dei tempi e dei confronti che hanno portato a quella precisa convinzione. Mi piace al riguardo far sintesi con Ratzinger: «La coscienza ha diritto al rispetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona la rispetta e ha per essa la cura che la sua dignità merita. Il diritto della coscienza è l’obbligo di formarla».

 Obbedire alla relazione

Intimamente legato alla coscienza è il tema dell’obbedienza. Francesco d’Assisi nella terza parte della terza Ammonizione dichiara che il frate non deve obbedire quando il Superiore gli dà un comando contrario alla coscienza. Ma subito dopo indica il segno che garantisce della validità del giudizio della coscienza del frate: che non si separi dal suo Superiore, che resti nell’amore. In altre parole, con una chiarezza geniale, Francesco afferma - in piena originalità nei confronti della spiritualità monastica del tempo - che l’obbedienza (anche quella religiosa) tra gli umani ha senso solo come amore.
In effetti, a livello antropologico, se si eccettua l’ubbidienza asimmetrica del bambino e dell’ammalato, l’ubbidienza tra paritari ha senso come scelta di fiducia e di amore che non può mai richiedere l’annullamento della propria coscienza. Tale chiarezza avrebbe evitato ai militari nazisti di vendersi l’anima, di annullare il funzionamento della neo-corteccia e ubbidire agli ordini criminali dei loro gerarchi. Mai l’ubbidienza tra paritari (che quando viene richiesta può avere solo valenze di funzionalità) può pretendere o includere l’annullamento della coscienza.
L’ubbidienza umana entra in gioco in modo drammatico nell’accettare l’asimmetria costitutiva della condizione umana: si è creatura e non Creatore. È questa ubbidienza che viene richiesta dalla condizione umana come unica premessa e garanzia di ogni umana ubbidienza e di ogni appello alla sacralità legittimata della coscienza. Nessun uomo può definirsi o essere definito Dio e può quindi chiedere o dare ubbidienza assoluta. Solo quando si accetta pienamente l’identità di creatura - figlio di Dio o della vita - sarà possibile la danza che nasce dal gioco della propria soggettività con quella altrui.

Dell’Autore segnaliamo:
Danza delle sedie e danza dei pronomi. Terapia Gestaltica Familiare
Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, pp. 179