Signorsì, signor Caino!

L’obbedienza al fratello, magari peccatore, è la rivoluzione di Francesco e del Vangelo

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 Parola d’ordine: obbedire a Caino!

A Caino? Sì, perché il fratricida, incalzato da Dio, rende esplicita l’originaria vocazione di ogni uomo.

Rileggo: «Il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”». Dio non spende una parola per dire a Caino: “Sì, tu sei proprio il custode di tuo fratello”. Da sempre ognuno di noi sa che è così, perciò Dio riprende direttamente: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (cf. Gen 4,9-10). Nel capitolo precedente Adamo ed Eva sperimentano che sganciarsi dalla relazione con Dio per autocostituirsi padroni della propria vita equivale a morire. Ora Caino mostra che non custodire il fratello conduce ad ucciderlo.

 La prospettiva della Bibbia

L’umanizzazione sta tutta nella relazione di obbedienza a Dio Padre, per ricevere da Lui la vita, e si rende concreta in ogni atteggiamento di cura e di ascolto del fratello, per moltiplicare la vita intorno a noi. La bibbia non obbliga i tanti a un’obbedienza muta e rassegnata e non riserva ai pochi il privilegio del potere. Per tutti la sfida è la stessa: essere davvero figli di un solo Padre e perciò fratelli gli uni degli altri. Per questo motivo né Gesù né san Francesco amano l’immaginario gerarchico e la terminologia che ne deriva. Così, secondo il dettato evangelico, l’esperienza della prima fraternità minoritica è espressa nella Regola non bollata: «Tutti i fratelli allo stesso modo non abbiano in questo potere o signoria, soprattutto tra di loro. Come infatti dice il Signore nell’evangelo: “I principi delle nazioni dominano su di esse e i più grandi esercitano su di esse il potere; non cosi sarà tra i fratelli. Ma chiunque vorrà farsi grande tra di essi, sia il loro ministro e servo. E chi è il più grande tra di loro diventi come il più piccolo”. Nessun frate dica male o faccia del male a un altro. Anzi maggiormente, per carità di spirito volontariamente si servano e si obbediscano a vicenda. E questa è la vera e santa obbedienza del Signore».
Basterebbe ricordarsi della struttura architettonica della Divina Commedia per rendersi conto di quanto l’immaginario gerarchico abbia segnato la cultura medievale. Nel suo viaggio ultramondano Dante sprofonda in due vertiginosi abissi, dal male minore al male maggiore nell’inferno, e, nel paradiso, dopo essersi gradualmente purificato ascendendo la collina del purgatorio, dal bene meno perfetto a quello più perfetto. La stessa storia medievale, in ogni ordine e spazio, è segnata da una questione squisitamente gerarchica: tra impero e papato, a chi l’ultima parola? Quando all’imperatore e quando al papa? Ciononostante, nelle regole dei minori l’obbedienza non procede secondo una logica univoca, dall’alto al basso, senza possibilità di riflussi in direzione contraria. 

Reti, non piramidi

L’immaginario francescano è profondamente incompatibile con una geometria piramidale e può essere utilmente rappresentato dall’immagine della rete, di straordinaria attualità, dove non esiste un centro e ogni nodo è centro del tutto,essendo legato, più o meno direttamente, a tutti gli altri.
Il capitolo ventitreesimo, e penultimo, della Regola non bollata è dedicato a un grande inno di lode, in cui Francesco e i suoi chiedono a tutti di «perseverare nella vera fede e penitenza». Non basta però dire genericamente “tutti”. Vengono interpellati molti e diversi gruppi umani. L’ordine gerarchico non è escluso, ma limitato all’ambito ecclesiale, prendendone allo stesso tempo le distanze per mezzo di un’omissione: pur essendo elencati con puntigliosità i vari ministeri ecclesiali, maggiori («sacerdoti, diaconi e suddiaconi») e minori («accoliti, esorcisti, lettori» ecc.), imprevedibilmente non compaiono i vescovi. Al di là dei depistaggi mondani cui andava soggetto il ministero episcopale, in ogni caso una piramide, privata del proprio vertice, è una piramide severamente depotenziata.
Chiara controprova in ambito civile, dove «i re e i principi», collocati dopo «i poveri e gli indigenti» e prima di «lavoratori e contadini», vengono implicitamente richiamati alla funzione ministeriale del loro potere, relativizzato al bene comune. La lode si conclude rivolgendosi a «tutti i popoli, genti, tribù e lingue, tutte le nazioni e tutti gli uomini di ogni parte della terra». È il grado massimo di universalità in questa lode “ecumenica” e viene introdotto dalla coppia dei pusilli (i piccoli, gli umili) e dei magni (i grandi). Quando i grandi stanno vicino ai piccoli e accettano di venire dopo di loro, ci può essere giustizia, pace e apertura dialogante verso etnie, lingue e ogni alterità.

 La nuova relazione

Rientrando nei confini della fraternità minoritica è interessante mettere sotto pressione lo schema dell’“obbedienza reciproca” verificando cosa preveda la legislazione francescana quando uno dei frati cada in peccato grave. Mentre nella Regola non bollata si prescriveva «se qualcuno dei fratelli, per istigazione del diavolo, fornicasse, deponga assolutamente l’abito», la Regola bollata, segnando in questo un indubbio vantaggio, non solo lascia cadere queste norme punitive specifiche per il peccato di fornicazione, ma prospetta un inatteso rovesciamento di posizioni tra superiori ed inferiori. «E ovunque vi siano fratelli che sapessero e constatassero di non poter osservare spiritualmente la Regola, devono e possono ricorrere ai loro ministri. I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e abbiano tale familiarità verso di loro, cosicché essi possano parlare e fare con loro come i signori con i loro servi; infatti così deve essere, che i ministri siano servi di tutti i fratelli».
Non si tratta semplicemente di invertire la posizione di privilegio con quella di subalternità, perché così la rivoluzione evangelica non sarebbe più efficace del gioco dei quattro cantoni. Infatti, per gli uni e per gli altri, si dice «volontariamente si servano e si obbediscano a vicenda». Ogni frate, in quanto fratello, è sfidato a inverare l’obbedienza al Signore nell’obbedienza al fratello, anche al fratello caduto in peccato grave, cosicché, per entrambi, l’obbedienza nasce, allo stesso tempo, dal rapporto con il Signore e dall’apertura alla effettiva concretezza del contesto, fraterno, ecclesiale e sociale, in cui si vive. L’obbedienza così intesa contesta apertamente il principio dell’homo homini lupus, per cui ogni uomo è un pericolo e una minaccia per ogni altro uomo, e, allo stesso tempo, rifonda un’alternativa rivoluzionaria e praticabile di relazione riconciliata.
Contestazione e rifondazione rilevanti non solo tra uomini, visto che Francesco conclude così il suo Saluto alle virtù: «l’uomo è suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo, e non soltanto ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono per quanto sarà loro concesso dall’alto del Signore». L’obbedienza sembra dunque esserci proposta come via nuova di relazione, dotata di motivazione e multipla densità: teologica, ma anche cosmologica; sociologica, ma anche interpersonale e profondamente ecclesiale perché profondamente cristologica, se è vero che Cristo, «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 5,8)».
Ecco, con sorpresa e vera gioia, mi trovo a cantare: la signora obbedienza non è più nemica della signora libertà e della signorina fantasia.