Le perle preziose del Maramureș

Quando si va per dare e ci si accorge di ricevere tanto

 di Lucia Merli
giovane che ha partecipato al “Campo di Volontariato in Missione” in Romania

 Tanti i pensieri, tante le idee in testa al gruppo di volontari del campo di solidarietà missionaria a Sighet, in Romania, dello scorso luglio, nella realtà missionaria dei frati cappuccini dell’Emilia-Romagna.

Questi miei appunti di viaggio spero possano coinvolgere nuovi volontari per il prossimo Campo a Sighetul Marmaţiei, detta Sighet (isola), nel Maramureș, regione rumena del nord. 

Un po’ di storia

Quando padre Filippo Aliani nel 2002 vi arrivò, la città rifletteva la situazione dell’intero paese, uscito da appena tredici anni dal dramma del regime comunista. Oltre a reprimere con ferocia il dissenso usando terrore e spionaggio, il dittatore Ceausescu, incoraggiando la crescita demografica per favorire l’urbanizzazione, l’industria e il controllo statale, portò all’aumento dell’abbandono infantile e del numero di orfanotrofi. Nel 1989, al crollo della dittatura, più di 100.000 orfani vennero spartiti tra case famiglia e le poche strutture statali rimaste in piedi. Le famiglie, immerse nella miseria e nell’alcolismo, spesso non erano in grado di riprendere in casa i figli. Tutt’ora è l’infanzia che più soffre di questo recente passato di abbandono e miseria.
I missionari come padre Filippo sono partiti dalle macerie di un paese distrutto, per mostrare un’alternativa, tentare l’impresa di infondere fiducia laddove dominava la diffidenza, persino il timore di essere denunciati da un proprio amico o famigliare. All’inizio, dopo aver continuato l’opera già avviata da alcuni gesuiti, ha fondato un oratorio, il Centro giovanile “San Francesco”, e una piccola fraternità con alcuni frati rumeni. Il sostegno alle famiglie in difficoltà si concretizza in aiuti materiali, per risistemare le case e pagare rette scolastiche, purché si abbandoni l’alcool e si mantenga un lavoro. In una piccola casa famiglia - col tempo ingrandita - sono passate generazioni di ragazzi e dall’oratorio è nato il gruppo “Speranza”, per giovani dai 14 ai 23 anni con attività di formazione umana e spirituale, gioco e volontariato.

 E poi vennero i campi

Da anni si ripetono i “campi di solidarietà”, in cui giovani italiani incontrano la realtà dell’oratorio e fanno attività coi bambini collaborando con gli educatori rumeni. Secondo padre Filippo uniscono l’utile e il bello: sono occasioni per i ragazzi rumeni di conoscere nuove attività da proporre durante l’anno, osservando modalità nuove e autentiche di stare insieme in gruppo e sono utili per chi arriva dall’Italia e spesso torna a casa con una “sana inquietudine” che scuote dall’indifferenza, magari con nuove amicizie che si mantengono malgrado la distanza.
Noi ci siamo divisi in tre gruppi: alcuni hanno organizzato un campo solare per i bambini di un piccolo paese vicino a Sighet, altri hanno fatto attività dalle suore, che accolgono tutto l’anno più di novanta bambini, altri ancora hanno lavorato al “Piccolo Principe”, una realtà di doposcuola/centro ricreativo di alcuni educatori, sostenuto dai frati. La situazione delle famiglie e dell’infanzia sta migliorando, ma continuano ad essere accolte storie difficili, riflesse negli occhi di tanti bimbi che si vedono gironzolare soli per le strade ben oltre la fine delle attività pomeridiane.

 Il potere è nell’incontro

Questi piccoli ti abbracciano prima di guardarti in faccia, hanno tanta voglia di giocare, impazziscono se vedono la piscina e adorano la competizione. Nei momenti di riposo dispensano sorrisi e carezze senza misura; le ragazze più grandi chiedono una treccia, alle piccole basta prenderti la mano… ci siamo trovati immersi in una tenerezza disarmante! Non conoscendo la lingua rumena - il che ha visto molti di noi rassegnati e delusi nei primi giorni - siamo stati costretti a fare l’esperienza preziosa dell’impotenza: quando si è obbligati a interagire con mezzi diversi da quelli linguistici, non si può che rispondere a un abbraccio con un altro abbraccio, a un sorriso con un sorriso. Un incontro che ha il potere di unire in modo profondo, costringe a cercare l’altro nel fondo dei suoi occhi, nel rumore della sua risata, nella stretta del suo abbraccio. Così, nella quotidianità sempre più naturale della vita del campo, tra giornate giocose e serate conviviali abbiamo assaporato un pezzetto di popolo rumeno, udito una voce diversa dalla nostra, accolto il privilegio di immergerci in qualcosa di nuovo. Una breve e preziosa esperienza interculturale.
Il progetto realizzato dai frati, in collaborazione con la casa famiglia di Johana e Gheorghe e con le suore, è stato lungimirante e educativo a tutto tondo: consegnare ai giovani accolti e a chi chiedeva aiuto gli strumenti per essere protagonisti del proprio futuro imparando a essere responsabili, e a Sighet oggi si raccolgono già i frutti di un lungo e faticoso lavoro, non sempre facile, ma entusiasmante. Dire di sì all’aiuto ha significato, come dice Filippo, accettare di fidarsi, di fare i conti con il mondo del lavoro e delle regole, ha significato buttarsi senza la certezza di potercela fare; questi ragazzi sono perle preziose, strappate dalla terra e ripulite dal fango. Qui, dalle ferite ancora aperte e dai detriti di vite sciupate, in chi in passato è stato rifiutato e continua a fare i conti con la sofferenza, sono già nate e continuano a nascere autentiche e forti vocazioni educative.

 Doppia direzione del servizio

Partendo, forse qualcuno di noi pensava di assistere poveretti, confortare bambini, insegnare qualcosa di buono; invece ci siamo scoperti desiderati come amici, accolti da bimbi sorridenti che per primi ci lanciano la palla. Credevamo di trovare miseria e degrado, invece abbiamo trascorso giornate insieme a ragazzi ricchi di talenti e interessi, imparato da loro canti in rumeno e partecipato alla loro vita.
Cosa significa allora servizio? Certo mettersi in gioco per chi è in difficoltà o per chi «questo gioco fatto così non lo conosce», per pensare laboratori, preparare materiale e attività simpatiche per le realtà rumene incontrate ogni mattina, ma - in questo campo ci è parso chiaro - il servizio non va mai in una sola direzione, poiché il bene è reciproco quando ci si incontra, ci si racconta, curiosi di esplorarsi a vicenda tra una risata e l’altra. E ci si incontra così, in quel buffo gesticolare per tentare di capirsi e di comunicare, cercando la vita che scorre nell’altro oltre le parole.
Al posto dei nostri stereotipi (il rumeno ubriacone, zingaro, ignorante) abbiamo goduto del privilegio di poter cominciare a demolire un pregiudizio. Portiamo a casa il sorriso incredibile di chi, nonostante il peso che porta sulle spalle, ha la forza di cantare ogni sera a squarciagola: «Dumnezeu e taria mea»: il Signore è la mia forza.