«Betta, quindi: tu che dici? Lo facciamo questo tè o è meglio rimandare?»: nei bellissimi occhi chiari della mia collega Lia, che oggi ha il ruolo di facilitatrice perché Maura in questi giorni è assente, vedo soffiare come vento le folate dell’indecisione. La risposta non mi viene: lo stesso interrogativo scompiglia anche me.

a cura della Caritas di Bologna

 Contro il grande freddo

Piccola polifonia sui sacerdoti

 IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE

Il cuore pizzicato

Mi guardo intorno sconsolata e perplessa. Per la prima volta da quando esiste il nostro spazio di condivisione, ci ritroviamo davvero in pochissimi.

Probabilmente sono stati molti i fattori che hanno contribuito alla preparazione di un tè così ristretto, ma non c’è dubbio che l’elemento determinante sia l’impossibilità ad essere con noi di Maura. È lei il punto di riferimento per molti amici del tè.
Scruto ad uno ad uno i pochi presenti indaffarati sull’abbondante merenda, preparata per un numero ben più grande di persone. Il disagio mi pizzica un po’ il cuore. Guardo i nostri amici così seriamente impegnati e ho la conferma che i gesti più semplici e quotidiani sono anche i più sostanziali; parlano un linguaggio universale e vengono prima di tutte le parole. Di colpo capisco. Anche lo spazio della condivisione non può sussistere, senza la materia prima e giornaliera della faticosa cura delle relazioni. La condivisione profonda fra persone non può nascere né mantenersi, senza un perseverante impegno continuativo, spesso difficile, per costruire fiducia e apertura reciproca. Un’apertura verso gli altri mai scontata, abitudinaria o “generica”, ma sempre individuale, personale, consegnata particolarmente a qualcuno. Il nostro buon tè per essere gustato, ha bisogno di abili coltivatori che ne curino ogni giorno la pianta dalle foglioline delicate e rare. Mi sembra ci sia sostanza sulla quale sarà importante riflettere per tutti noi, ma ora è tempo di decidere.

 Le mani fuori

Lia ed io ci assicuriamo che i presenti siano contenti di fermarsi e ci scambiamo uno sguardo d’intesa. Nei suoi occhi cristallini ora c’è solo il riflesso iridescente della luce e l’allegria curiosa di chi sta per assaggiare qualcosa di buono: «Cominciamo?» mi chiede, ma questa volta la domanda, ha già in sé la sua risposta. Non è il numero dei presenti che rende una condivisione ricca, ciò che conta davvero è la disponibilità a stare nel cerchio portando tutta la propria vita con sé. «L’argomento di oggi è particolarmente delicato, parleremo della figura del sacerdote». Lia da subito esprime il suo stile, pratico e sintetico ed è una ricchezza vedere che lo stesso ruolo ha mille modi di essere interpretato. Con poche chiare sottolineature mette a fuoco il tema. Poi butta lì qualche domanda, rivelando la sua esperienza professionale ormai pluridecennale: «Che cosa vi viene in mente se dico la parola “sacerdote”? Qual è il primo ricordo che avete di questa figura?»
Maria Rosaria reagisce immediatamente: «Mia madre era molto devota. Lei andava tutti i giorni al rosario e alla messa e mi portava con sé perché non aveva un posto dove lasciarmi. Ma io ricordo che facevo una gran fatica a star buona e ferma… ricordo benissimo il parroco, un pretone grande e grosso, lui si avvicinava e mi zittiva. Con quel dito davanti alla bocca mi faceva “Shhhhh!”. Era anziano ed io lo vedevo autoritario, mi faceva proprio paura…! Da allora, odio le prediche! Poi ho ricordi più recenti, ma non sempre positivi… mi andavo a confessare in una chiesa, ma ho trovato uno che mi faceva certe domande imbarazzanti: voleva sapere dove tenevo le mani quando andavo a dormire. “Dove capita!” gli ho risposto! Che brutta esperienza però!».
«Quando finii le medie mi iscrissero al liceo aeronautico di Forlì e là c’erano studenti di tutta la regione», si butta con impeto Gabriele. «Molti erano ospiti in un collegio salesiano. Figuratevi che il prof di religione, prete anche lui, mi spiegò un giorno che c’erano regole rigidissime al collegio proprio per la tutela della “morale”: i ragazzi non potevano mai salire nelle camere a riposare il pomeriggio proprio per quello e di sera il prefetto passava a controllare che tutti avessero le mani fuori dalle lenzuola… che roba!».

 Nessun ricordo

«Io fin da grande sono stata obbligata ad andare a messa, perché mio padre mi ci costringeva. Ma non ho conservato proprio nessun ricordo… niente mi è rimasto impresso, proprio niente…», la voce dolce e triste di Narcisa entra nel cerchio con delicatezza e ci lascia per un attimo sospesi.
Mah! Certo che nello stile di vita i preti son proprio diversi da noi e non c’è dubbio che anche loro avranno pure degli istinti! Anche loro sono umani, no? Ma come faranno?», butta là Maria Rosaria evidentemente in cerca di chiarezze. «E perché poi un giovane al giorno d’oggi dovrebbe farsi prete? La figura del prete è in diminuzione! Vedete bene anche voi: i preti di oggi sono uguali a tutti gli altri: hanno fretta, non ti ascoltano… una volta davano più attenzione, più sicurezza, più pace… io non credo che qualcuno abbia più la vocazione; se uno diventa prete oggi, per me lo fa per qualche altro scopo…».
«E se davvero non ci fossero più preti, voi come lo vedete il futuro della Chiesa?», provoca un po’ Lia.
I pochi presenti si lanciano in ipotesi quanto mai suggestive: «Bè, il sacerdozio diverrà una professione!», risponde Maria Rosaria, pragmatica. «O magari tutte le cose sacre verranno affidate ai laici…», ipotizza Gabriele. Le parole piano piano si trasformano in chiacchiere fra amici, complice l’atmosfera intima del piccolo cerchio.

 Uomini di Dio

Ascolto, ma qualcosa mi distrae. Una nebbia grigia mi è esplosa dentro e una sensazione di fredda solitudine mi sta penetrando nel cuore. Al centro di quell’improvviso gelo interiore, trovo una domanda e una preghiera: «Ma perché questa gente già così poco amata, non ha mai avuto nemmeno la gioia di conoscere dei veri uomini di Dio? Eppure ci sono! Io li ho incontrati! Signore, non è giusto!».
Improvvisamente provo il desiderio imperioso di espormi e condividere con loro un pezzetto della mia storia, di chi sono. Qualcosa di me che in pochi conoscono perché è memoria preziosa, da custodire come una benedizione santa: con pudore. Appoggio la penna al foglio e alzo la fronte. Nella sorpresa generale, ascolto le mie parole svelare come - trent’anni fa - un frate veramente buono abbia saputo volermi bene al punto da salvarmi la vita e, con essa, il futuro, permettendo all’amore stesso di Dio di penetrare nella mia esistenza, cambiandola per sempre.
Quando termino il racconto, sento le guance bruciare. Il freddo è passato. Vedo intorno sorrisi e negli sguardi compiaciuti dei presenti leggo una frase: «Eccoti finalmente, ti stavamo aspettando!».