Sulla soglia tra sacro e profano

Gesù, sommo sacerdote, è il grande mediatore fra uomo e Dio

 di Mirko Montaguti
frate conventuale di Longiano, biblista

 Ogni buon ministro della Parola di Dio, catecheta, sacerdote o educatore, sa bene che il Vangelo ha una potenza intrinseca di trasformazione del cuore degli uomini e delle donne.

Sa però anche che spesso le orecchie sono chiuse all’ascolto e i cuori palpitano dentro scorze un po’ indurite. A volte sono la rigidità, la paura o il rifiuto a impedire l’ascolto sincero e aperto. Altre volte sono semplicemente l’abitudine o la disattenzione.
Oggi - è vero - siamo bombardati di stimoli sensoriali, a tal punto che solo quelli che creano l’impatto emotivo più forte hanno la possibilità di penetrare dentro la nostra memoria e la nostra coscienza. Ma, in fondo, è sempre stato necessario per l’annunciatore di ogni tempo occuparsi non solo dell’esattezza del contenuto da comunicare, ma anche della possibilità di attirare l’attenzione dei propri destinatari.
Sarà esagerato sostenere che il primo teorizzatore del marketing fu Aristotele, con il suo trattato sull’arte retorica (ovvero l’arte di saper convincere), ma di sicuro i grandi retori dell’antichità hanno molto da insegnare su come colpire e conquistare l’attenzione di un uditorio. Il grande Paolo di Tarso ebbe una formazione retorica (se ne vede chiara la traccia nelle sue lettere), ma anche tutti gli autori del Nuovo Testamento hanno dovuto cimentarsi nel rendere l’annuncio cristiano plausibile, convincente e dirompente.

 Non solo marketing

Lo scrupoloso omileta che sta all’origine della Lettera agli Ebrei (di cui purtroppo non conosceremo mai il nome) ha di certo voluto colpire l’attenzione dei suoi ascoltatori quando ha deciso di far ruotare buona parte del suo sermone intorno al titolo “sacerdote” applicato a Gesù; potremmo infatti dire che esso occupa almeno i capitoli da 3 a 10 di questo scritto che ne conta in tutto 13. Lo stupore non può non cogliere anche il lettore moderno quando si imbatte per la prima volta in Eb 2,17 con questa strana definizione: Cristo divenne «un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio».
Pensiamo per un attimo al maestro itinerante di Galilea, che attirava a sé le folle con le sue parole dense di sapienza concreta e con i suoi gesti caratterizzati da vicinanza e umanità; ricordiamo come la sua predicazione simil-profetica contro le ingiustizie sociali facesse tremare le poltrone dei potenti ierocrati di Gerusalemme molto più che le dottrine degli scribi e dei farisei; consideriamo che furono proprio i sommi sacerdoti ad architettare la sua morte, consumata fuori dalle mura della città, lontano dal tempio, non certamente come un sacrificio puro ma piuttosto come una terribile esecrazione. L’effetto sorpresa, a questo punto, è garantito nell’ascoltare che Gesù di Nazareth può essere definito «sommo sacerdote».
Eppure, l’annuncio della Lettera agli Ebrei non è solo uno stratagemma per attirare l’attenzione. Esso è anche e soprattutto il frutto di una profonda riflessione intorno alle Scritture ebraiche e alla persona di Cristo: se Dio con la parola definitiva pronunciata nel Figlio ha dato compimento a tutta la Scrittura, com’è possibile che il filone levitico e sacerdotale (che occupa gran parte della Bibbia ebraica con le molte norme di carattere cultuale e le interpretazioni sulla storia santa fornite dai sacerdoti) non trovi anch’esso pienezza e approdo in Cristo? Se Gesù è profeta, liberatore, messia… non può non essere anche sacerdote! Ma in che modo?

 Ogni sacerdote è un ponte

Gesù è «sommo sacerdote» perché dà compimento al sacerdozio antico, assolvendo in modo sommo le funzioni ascrivibili ai sacerdoti. Scorrendo non solo la Torah (in particolare Esodo e Levitico), ma anche i vangeli (basti pensare a quanto richiesto ai lebbrosi guariti: Lc 17,14), possiamo individuare molteplici compiti degli antichi sacerdoti giudaici: offrivano sacrifici rituali, attestavano la guarigione di malattie, detenevano prerogative giuridiche, insegnavano, impartivano benedizioni… Tutte queste azioni trovavano però unità in un punto particolare: la relazione con Dio.
Il sacerdote, infatti, era portatore della responsabilità della comunità circa il rapporto con Dio. Egli era chiamato a servire il popolo in ogni elemento che toccasse questa relazione; era chiamato a sostenerla, nutrirla e curarla. In altre parole, al cuore del sacerdozio giudaico c’era la necessità di una mediazione tra il popolo e Dio!
Israele ha sempre riconosciuto la distanza profonda tra la santità di Dio e la fragilità dell’uomo, ma questo sentimento non gli ha mai impedito di voler rimanere strettamente legato a Dio. Se non è possibile, per la comunità tutta, una radicale trasformazione per passare dal profano al sacro, ci sono alcuni uomini (presi dal popolo) che garantiscono comunque un accesso al sacro, facendo in qualche modo “da ponte”. Allo stesso modo, Gesù è sacerdote nella misura in cui può assolvere a questa funzione vitale per gli uomini: tenere aperta la possibilità della relazione con Dio, fungere da collegamento e da mediazione, pur in quella struttura fragile (profana) che caratterizza l’umanità.

 Con un piede in due staffe

Dichiarare Gesù «sommo sacerdote» significa così contemplarlo nella sua capacità di relazione. Egli tiene aperta la strada tra noi e Dio solo se non rende esclusiva una di queste due relazioni fondamentali: quella con Dio e quella con gli uomini.
Nonostante i complessi riti di consacrazione e purificazione a cui erano sottoposti per mantenersi nell’ambito del sacro, non era difficile per gli antichi sacerdoti mostrarsi totalmente in comunione con gli uomini; in fondo essi erano scelti proprio tra il popolo. Per il Figlio di Dio, invece, ci è più semplice cogliere il suo essere pienamente in relazione con Dio (è appunto «degno di fede nelle cose che riguardano Dio», totalmente accreditato presso di lui).
Ciò che il Figlio di Dio doveva realizzare per poter assolvere fino in fondo alla sua funzione sacerdotale era allora il «rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17), mantenendo con gli uomini una relazione di comunione profonda e palpitante, connotata di misericordia. Egli doveva, in qualche modo, scendere al livello degli uomini, fino a soffrire e morire, esattamente come uno di loro. Non si può mediare se non si sente con il medesimo cuore e se non si palpita nella medesima carne. Di certo Gesù non si è tirato indietro di fronte a questa sfida; lui, il «pastore grande delle pecore» (Eb 13,20), si è lasciato totalmente impregnare del loro odore, per «diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio».