La vita di MC, nato nel 1957 dall’eredità di Zelatore francescano, Fiori serafici e Santuario di S. Giuseppe, negli ultimi quarant’anni si è dipanata indissolubilmente insieme alla vita di Alessandro Casadio e Antonietta Valsecchi. Alla fine del 2017 - il 20 ottobre l’uno e il 2 dicembre l’altra - ci hanno lasciati per tornare, come si dice, con verità e un pizzico di retorica, alla casa del Padre. Segue il resoconto di una bella mostra nella biblioteca di Bologna.
La Redazione di MC
Dopo l’angolo, una tisana
Messaggero Cappuccino saluta due colonne storiche della redazione
di Lucia Lafratta
della Redazione di MC
Superman all’incontrario
Chissà se gli sarebbe piaciuta l’idea di paragonarlo a Superman all’incontrario, non il mite e miope Clark Kent che si trasforma alla bisogna, ma Superman che si fa Clark per dare aiuto e stare accanto, nella quotidianità, senza roboanti proclami né azioni eclatanti, a chi ha bisogno.
Alessandro, forte dell’amore ricevuto in famiglia, dai genitori e dai quattro fratelli maggiori che lo hanno cresciuto nella fiducia verso il mondo e la vita, nonostante o forse proprio per i suoi limiti dovuti alla poliomielite contratta da piccolissimo, ha usato la forza sviluppata per mettere a frutto i suoi innumerevoli talenti. Intelligenza, capacità artistica, fine sensibilità per cogliere i bisogni degli altri, senso dell’umorismo segnato da una vena di lieve malinconia, come chi la vita la conosce dall’interno e sa già, anche a vent’anni, come stanno le cose: così va il mondo stellina, diceva, sfregandosi le mani velocemente con una risata e in quell’espressione ci stava tutto.
La consapevolezza delle difficoltà che ogni giorno doveva affrontare anche solo per salire su un marciapiede, quando ancora poteva provarci, o per fare la spesa al supermercato, le battaglie per convincere chi, come lui, era gravato da un handicap a non abbattersi, a non rinunciare a vivere dignitosamente, la rabbia nel leggere nel volto altrui la paura dell’incontro con il diverso e la compassione un po’ pelosa e sollevata dal trovarsi dall’altra parte, nel mondo dei cosiddetti sani, l’impegno per contribuire a svecchiare una chiesa che amava e che gli sarebbe piaciuta un po’ meno bacchettona e concentrata sulle pie devozioni e un po’ più attenta ai deboli. Così va il mondo, stellina, e il mondo gli andava bene, e ancora a sessant’anni ne era stupefatto, perché sapeva di avere ricevuto immeritatamente il centuplo.
Così va il mondo stellina
Daniela, che aveva sposato, ventun’anni entrambi, tra la contrarietà di alcuni e la perplessità di molti, i figli Matteo, Samuele, Agnese e Pietro, le nuore e le due nipotine che, quando le nominava, cambiava voce e che riteneva spudoratamente, senza se e senza ma, bellissime. Fratelli e sorelle, cognati e cognate con le loro famiglie, gli amici di tutta la vita incontrati sui banchi di scuola e nel gruppo di giovani che si erano ritrovati alla metà degli anni Settanta presso il convento dei cappuccini di Imola, dove un giovane frate, che presto diventò anche direttore di Messaggero Cappuccino, Dino Dozzi, era stato mandato come superiore. E poi gli amici del “Gruppo Amici insieme”, nato dall’intuizione dei genitori di Alessandro e dall’accoglienza entusiasta delle Piccole Suore di Santa Teresa del Bambin Gesù, ai quali ha dedicato energie e tempo soprattutto perché ognuno, nella propria unicità e difficoltà, potesse riconoscersi degno d’amore e amarsi, camminando insieme, appunto, in amicizia.
Quando Daniela, otto anni fa, se n’è andata dopo una grave malattia, quel mondo si è fatto più difficile da abitare per Alessandro, sono stati tempi duri, tempi di ancor più animato dialogo con quel Dio del quale non si metteva in dubbio la paternità e la misericordia, ma le cui vie, che, come si sa, non sono le nostre vie, si faceva molta fatica a capire e a percorrere. Ma, con la stessa caparbia fiducia del Superman nascosto sotto mentite spoglie, compagna l’inevitabile solitudine, Alessandro si è rimesso in strada con il suo scooter a tre ruote, sfidando automobilisti protervi, ciclisti distratti, buche improvvise e ogni sorta di barriera architettonica: se non si rischia un po’, stellina, che vita è?
Qualche giorno dopo la morte di Alessandro, ho fatto un sogno. Andavo a casa sua per salutarlo, mi affacciavo, come al solito, dal balcone del soggiorno per chiamarlo e farmi aprire, ma vedevo solo i ragazzi, tutti insieme. Faccio il giro del palazzo, mi dicevo, magari lo trovo nel retro. Svoltato l’angolo, mi ritrovavo al mare, al sole, sulla spiaggia. Ma guarda un po’, riflettevo fra me, in che bel posto si è trasferito Sandro. Chiunque ci sia di là e qualunque cosa accada - quante volte ne abbiamo parlato senza giungere ad una conclusione per lo meno accettabile, fino al momento in cui, come da ragazzi nei lunghi pomeriggi domenicali passati a sistemare il mondo, arrivava il momento di tornare a casa - ora so che sarà una buona cosa.
Sorella senza orario
Sono andata a trovarla un mese esatto prima che se ne andasse. Avevo telefonato chiedendo alle sue consorelle dell’Istituto Missionario Ancelle dei Poveri se potevo passare per un breve saluto. Mi avevano detto di sì, forse per non deludermi; così, quando sono entrata in casa, c’erano tutte, oltre all’amata sorella Graziella, e tutte, con la consueta delicatezza, mi hanno messo, per così dire, in guardia: si stanca molto presto, è un po’ scostante, ma, sì, ti accompagniamo su in camera. Va bene, se pensate che non sia un problema, le faccio un saluto e vado. D’altra parte come può una persona che da tanti anni è gravemente malata, che si è resa disponibile a sperimentare sul proprio corpo diversi tipi di chemioterapia per aiutare i medici a trovare nuove cure utili ad altri che, grazie a lei, potranno avere una vita migliore, che ha sopportato con pazienza e con il sorriso una interminabile trafila di ricoveri, operazioni, cure non essere almeno un po’ scostante?
Il saluto non è stato rapido. Ho trovato quasi intatta nello spirito l’Antonietta di sempre che, con l’affetto di sempre, desiderava raccontare dei suoi innumerevoli amatissimi nipoti e pronipoti, dei matrimoni, delle separazioni, delle nascite, della scuola e del lavoro; che ancora si animava parlando della ventata d’aria fresca che papa Francesco ha portato nella Chiesa e nel mondo e di come nelle chiese locali si faccia ancora fatica a seguirlo e tenere il suo passo; che ancora, dopo anni, non riusciva a farsi una ragione della malattia che aveva portato via Daniela alla famiglia e, soprattutto, a Alessandro. Pensavo di trovarla un po’ disorientata - confonde le medicine, non sempre ricorda se e quali ha già preso - ma l’affetto che sempre ha nutrito per tutti i giovani, da tempo ormai ex, di quello che fu il gruppo cappuccini di Imola, era rimasto intatto e con l’affetto la memoria: di ognuno mi ha domandato, di ogni figlio e figlia dei quali non aveva dimenticato i nomi, l’età, le malattie di quando erano bambini, le difficoltà dell’adolescenza, le strade intraprese nell’età adulta.
Missionaria che stava accanto
Non pretendeva di “istruirci”, stava accanto a noi, disposta ad ascoltarci e contenta di vederci crescere e fare le scelte della vita. Quando avevi bisogno c’era sempre, si prendeva il tempo di venire nelle nostre case, alla sera, a fare quattro chiacchiere, a sollevarci un po’ dalla fatica restando con i bambini piccoli, aveva sempre qualche minuto per chi passava negli uffici presso il convento dei cappuccini di Imola. Perché Antonietta è arrivata a Imola nel 1976, quando l’attività legata all’animazione missionaria dei cappuccini della Provincia di Bologna è stata trasferita lì dal convento di Faenza. Da allora si è dedicata anima e corpo al lavoro di segreteria per questa rivista e per portare avanti le attività missionarie. Lavoro, però, non è parola che può rendere davvero ciò che faceva e quello che la sua incessante attività significava per lei. Lavoro, per la maggior parte, significa un tempo impiegato in un’attività, magari, se si è fortunati, scelta e amata, definita nel tempo.
Per Antonietta era gran parte della vita, perché sentiva e sapeva che il suo lavoro era una piccola parte di un tutto che aveva lo scopo di aiutare i missionari, era comunque una missione. La missione era stato il suo grande desiderio da giovane, e la scelta dell’Istituto in cui aveva preso i voti lo testimonia, ma la salute non le aveva consentito di partire per l’Africa come avrebbe desiderato, e allora era rimasta in Italia, punto di riferimento per le consorelle presenti in India e in Africa. E punto di riferimento per le ragazze madri e i loro figli che per anni sono state ospiti nella sede bolognese dell’Istituto. Per lei non c’era orario di lavoro, c’era il desiderio di fare le cose come vanno fatte: la collega che tutti vorrebbero, affidabile, competente, intelligente e sensibile per capire quando lasciare correre e quando insistere, quando farsi da parte e quando essere presente.
Messaggero Cappuccino deve molto a lei e alla sua dedizione che non è mai venuta meno, neppure dopo la pensione, neppure negli ultimi anni, quando la malattia progressivamente le impediva sempre più di stare al computer, le toglieva la vista rendendo difficile la lettura, le faceva venire meno le forze e la costringeva a letto. Sono sempre stanca, ma spero di riprendermi, mi diceva solo qualche mese fa, perché devo sistemare dei conti correnti, ci sono le bozze da correggere… E poi ci sono da registrare i nomi di chi ha offerto una pecora per una famiglia nel Dawro Konta, le cose da fare sono sempre tante.
Adesso, finalmente, sa che si può riposare e mettere da parte le scadenze, può riabbracciare i suoi cari e, come hanno detto tutti quei giovani ormai vecchi, può ritrovare Alessandro e Daniela, e anche Serena della quale ha seguito i piccolissimi figli quando un incidente le ha spezzato la vita, e con loro riprendere i discorsi interrotti, sorseggiando una tisana che scalda il corpo e il cuore.