Mentre ancora cerco una posizione comoda sulla sedia, sento la voce di Maura che dà il benvenuto ai nuovi amici. Sono contenta. È diventato bello questo spazio del tè che ogni volta si apre ed evolve. Muta forma e colore proprio perché non ha i confini di un gruppo. Con Maura ormai non ci preoccupiamo quasi più, soltanto ce lo godiamo grate, gustando il regalo sempre straordinariamente diverso che nasce dallo scambio di esperienze.

a cura della Caritas Diocesana di Bologna

Parola, pane e noi

Il silenzio buono, la parola e il pane dei poveri

Il tè delle buone notizie

 Nel cerchio magico

Il cerchio della condivisione non smette di stupirci per ciò che genera e per ciò che in effetti è nella sua sostanza: una lente di ingrandimento potentissima attraverso la quale contempliamo la bellezza profonda dell’umanità, spoglia di tutto ciò che non serve e raccolta intorno all’essenziale. Un miracolo di sapienza dove Dio abita.


Terminata la spiegazione delle regole necessarie per comunicare fra noi, Maura lancia il tema. «Oggi parleremo delle… “parole”, in particolare delle parole che ci hanno fatto bene e di quelle dure e difficili, che ci hanno fatto male, che ci hanno ferito. Quali sono state?».

 Ritrovare la strada

Maria Rosaria è la prima voce del cerchio: «C’è stato un periodo in cui io coabitavo con due studentesse, qui a Bologna. Loro mi vedevano strana. Lo sentivo anche se non parlavano… Una volta una però mi disse: “Se fossi in te, mi vergognerei…”. Io ci rimasi male. Avevo 32 anni e non 20, come loro. In quel periodo vivevo faticosamente, in una situazione precaria, arrabattandomi un po’. Però che ne potevano sapere loro della mia vita? Della mia fatica? Allora ho preso le mie due cose e sono andata via, senza neanche rispondere… Non l’ho mai dimenticato quel giudizio!».
«Io a ventotto anni ho ricevuto una promessa di lavoro, che poi non erano parole vere», racconta Raffaele e la tristezza impasta la sua voce resa uniforme dalle medicine. «Mi son sentito preso in giro e li ho denunciati, ma tutto è finito in niente ed io mi sono sentito affranto come uno che non conta nulla. Dopo me ne sono andato. Soffrivo troppo per averci creduto…».
Improvvisamente un silenzio assordante e temibile, plana e affonda sul cerchio. Lo riconosco subito perché l’ho incontrato spesso e lo temo come un nemico maligno e mortifero. È il vuoto muto del dolore innocente: frantuma l’anima e ne risucchia, rubandole, tutte le parole. Mi guardo intorno con attenzione. Ognuno è chiuso nella prigione angusta dei pensieri. Senza parole, si è condannati all’isolamento. Osservo Maura: mi sembra un’esploratrice persa in una terra sconosciuta; con gli occhi stretti, concentratissima, legge ed interpreta, ad uno ad uno, i volti dei presenti come fossero mappe. Poi sorride e china il capo soddisfatta: ha ritrovato la strada. 

Essere o non essere? Utilità del gelato

Mi sarei aspettata un suo intervento immediato ed invece tace e ascolta il silenzio ancora qualche minuto. Attende che ognuno faccia i conti con sé stesso. Non ha fretta di farci uscire di lì. Quando il silenzio è una scelta per il bene di tutti, merita di essere abitato. Poi prende fiato e propone una domanda: «Questo silenzio è significativo, non credete?». «A dire il vero è stata proprio lei signora Maura ad insegnarci che è più importante ascoltare che parlare, no?», ribatte un po’ in difesa Gabriele. Maura gli sorride e si vede che è felice. «Vorrei raccontarvi un episodio che mi è capitato, mi è tornato in mente guardandovi prima. Una volta sono stata chiamata dall’ospedale perché avevano trovato un signore, che seguivo qui al centro, quasi in fin di vita ai giardini pubblici. Stava lasciandosi morire di stenti, buttato su una panchina del parco. Era stato ricoverato all’ospedale psichiatrico. Lo avevano nutrito con le flebo e si era ripreso, ma non parlava più. Mi chiesero di andare a trovarlo per provare a scuoterlo. Andai e lo trovai seduto con altri pazienti in una saletta, davanti alla tv. Lo salutai e provai a farlo chiacchierare in ogni modo possibile. Niente. Nessuna reazione. Allora sono rimasta lì al suo fianco per un sacco di tempo, senza dir niente e senza far nulla. Seduta vicina lui e basta. Fu un silenzio difficilissimo per me, di mio sono una irrequieta, non posso stare con le mani in mano. Quando, ormai tardi, stavo quasi per salutarlo, lui, sempre con lo sguardo fisso avanti, mi chiese: “Ma secondo te, le cose esistono? E se esistono, perché esistono?” Io rimasi di stucco, sapendo che aveva tentato il suicidio… Poi stupidamente cercai di spiegargli che, certo, tutto esiste e tutto ha senso. Mi sa che gli parlai persino di Dio. E allora lui mi chiese: “Ma allora perché non posso avere quello che vedo?”. Stava guardando una pubblicità del cornetto, il gelato… Mi voleva semplicemente chiedere un gelato…». Una risata fragorosa e spontanea si accende di colpo, illuminando tutto il cerchio di allegria. Nessuna arma è più potente di questa per combattere il silenzio mortifero dell’anima e Maura ora può concludere: «Ho capito grazie a questo signore che esiste anche un silenzio buono, che può essere condiviso e fa bene; poi ho capito anche un’altra cosa: ciò che conta non sono tanto le parole che diciamo, quanto l’intenzione di capirci a vicenda con la quale le pronunciamo… A volte le intenzioni con cui ci rivolgono le parole non sono affatto amichevoli. Penso alla parola “povero” ad esempio: che effetto vi fa quando qualcuno vi chiama così?». 

Povero chi?

«Io non mi sento povero come mi definiscono. È vero che non ho soldi, ma la povertà brutta è quella della testa!», dice Robert e racconta di come senza bisogno di usare tante parole è stato capace di difendere una famiglia dallo sfratto esecutivo, restando fermo, insieme ad altri amici, davanti alla porta della loro casa, respingendo senza violenza l’ufficiale giudiziario.
«Io non mi sento mai povero qui!», dice Maurizio. «Perché? Perché qui nessuno mi giudica e mi sento accolto. Chi mi chiama “povero” è perché ha paura di diventare povero». «Il fatto è che i ricchi sanno che la loro ricchezza è costruita su di noi», incalza Gabriele polemico. «Noi gli ricordiamo che la loro ricchezza è in realtà uno squilibrio di giustizia! Per questo o ci odiano o ci rimuovono e fanno finta di non vederci».
«Eh No! Non bisogna far filosofie!» esclama Tomislaw esasperato «Io mi sento povero, eccome! Non vivo più una vita da persona normale! Poi certo, sono ancora ricco perché ho il dono dei figli e di una famiglia, ma resto povero però».
«Per me si diventa poveri quando perdi il lavoro e poi perdi la libertà», dice Abderrazak; «dopo succede che sono gli altri, i ricchi, a dirti cosa devi fare: “dormi qui”, “mangia lì”; si diventa schiavi e si perdono i diritti…». Stefano chiarisce la sua: «Be’, per me è povero chi non ha niente! Ma non è che un povero è stupido. Nessuno ha diritto di farlo passare per tale». «Sono d’accordo», approva Severino; «uno per giudicarti deve conoscerti, Il fatto è che la gente oggi ti chiama “povero” per farti del male, senza nemmeno sapere chi sei; senza conoscere la tua storia… Non è giusto!».
«A proposito di “parole” e di “poveri”… Sapete a me cosa son venute in mente adesso?» interviene di botto Maurizio: «mi son tornate in mente le tre parole che ci ha lasciato il papa quando è venuto qui a Bologna; le 3 P: Parola, Pane e poveri. Il papa ha detto che sono parole da non perdere, per restare nella fede, più vicini a Dio».
Maurizio fa una piccola pausa, si guarda intorno con calma e sorride: «Be’ allora: la “parola” qui al tè c’è senza dubbio e oggi più che mai, il “pane” è la merenda lì sul tavolino… e i poveri… be’ i poveri siamo noi! Vedete? Non ci manca proprio niente!».
Parola, pane e noi. In sintesi, la sostanza della vera ricchezza.