Canzone, cantala se vuoi

La continua evoluzione della parola nella musica

 di Walter Gatti
giornalismo & comunicazione

Parole, parole, parole», canticchiavano all’inizio degli anni Settanta Mina e Alberto Lupo in una canzone-narrazione diventata celebre grazie al testo di Leo Chiosso che ironizzava sul rapporto tra un lui verboso ed una lei che desiderava meno parole e più romanticismo.

Ed una delle leggende della West Coast, Neil Young, negli stessi anni incideva una ruvidissima canzone - Words - in cui le già citate “parole” diventano solo «Parole, parole tra i versi del tempo», modo insolito di inserire le cose dette dall’uomo all’interno delle cose dette dall’eternità. Due estremi opposti di riferirsi alla “parola” come comunicazione di significati all’interno di quel discorso musicale che è la “canzone”.

 La conquista della musica leggera

Sembra banale dirlo, ma senza “parole” non ci sarebbero le canzoni. Gli stornelli, le ballate, le canzonette, i blues, le ballate napoletane, le canzoni country o brasiliane: quando ci si riferisce alle “parole” in musica si va a toccare uno dei grandi argomenti della cultura leggera del XX secolo. Le parole nella musica rock e pop hanno sempre avuto un ruolo e un’importanza centrale, vuoi perché in esse sta la grande conquista della “musica leggera”, vuoi perché proprio attraverso di esse si è costruito un mondo di “cantabilità” e “memorizzazione” che fa sì che ci siano canzoni leggendarie capaci di rimanere nel tempo. Il segreto dei successi eterni - da Sapore di sale a Let it Be, da Rock around the clock a Si può dare di più, da Born in the Usa a Hotel California - sta in quel mix di ritmo, melodia-armonia e cose da dire attraverso sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi. Così le parole suggeriscono magie («C’è una signora che è sicura / che sia oro tutto quel che luccica / e sta comprando una scala per il paradiso»: Led Zeppelin, Stairway to Heaven) oppure cantano grandi amori («È piuttosto bizzarra questa sensazione che ho dentro / non sono uno di quelli che riescono facilmente a nasconderla / Non ho molti soldi / ma se li avessi / comprerei una grande casa dove entrambi potremmo vivere»: Elton John, Your Song), oppure ancora grandi ricerche («Ho scalato la montagna più alta / Ho corso attraverso i campi / Solo per stare con te / Ho corso / ho strisciato / Ho scalato questi muri della città / Solo per stare con te / Ma non ho ancora trovato quel che sto cercando»: U2, I still havent found what i’m looking for).
Come detto già da tanti e da tanto tempo, i cantautori più famosi, italiani o stranieri, hanno fatto dell’uso consapevole e poetico della parola la loro marcia in più. Se non avessero avuto da dire nulla di diverso dai loro contemporanei (o se avessero detto le cose con lo stile di tutti), oggi non ci riferiremmo con stima artistica a personaggi come Leonard Cohen e Francesco de Gregori, Enrico Ruggeri e David Bowie, Francesco Guccini ed Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Joni Mitchell: si può immaginare che le canzoni di questi nomi sacri della musica dei nostri tempi possano vivere e diventare quasi immortali senza un uso importante di sostantivi ed aggettivi? Ma in uno scenario musicale in cui Bob Dylan, il maestro, si è portato a casa il Nobel per la Letteratura, a dimostrazione del legame intrinseco tra canzone e poetica colta, viene inevitabilmente da pensare che in musica le parole possono assumere una forza anche maggiore di quando le stesse rimangono stampate sul foglio di carta. Incredibile fautore di una forma artistica mediata - il “teatro canzone” - Giorgio Gaber ha addirittura fatto dell’incontro tra parole e musica una scommessa per lanciare sfide culturali, per rompere il guscio, per provocare la coscienza in una riflessione sulla contemporaneità, come dimostra per bene in Un gesto naturale.

 Dal profondo del ghetto spirituale

Ma quel che abbiamo brevemente descritto fino ad ora, ad un certo punto è entrato in una fase differente. I musicisti di tipo classico, i cantautori o le stelle del rock hanno utilizzato i loro testi calandoli nella metrica. Ad un certo punto, invece, i testi si sono impadroniti della metrica. Durante gli anni Ottanta è esploso nel mondo delle sette note un insolito e nuovo modo di esprimersi, il “rap”. Cresciuto negli ambienti dei ghetti neri americani come mezzo espressivo alternativo ed anche sfrontato e violento, è diventato in un paio di decenni un modo per dire cose più o meno scomode in un fiume torrenziale di espressioni gergali, in cui le parole si assommano in modo associativo e caleidoscopico. Presto sbarcato anche in Europa ed in Italia, il rap (e l’hip hop) è diventato ad oggi uno dei fenomeni musicali più seguiti dal mondo dei giovanissimi, perdendo per strada una buona parte della sua carica poetico-aggressiva e diventando un banale schema musicale da ammiccamento erotico.
Ma quando il rap era ancora ingenuo, fiero e puro, uno dei primi rapper di casa nostra, Frankie Hi NRG, aveva dedicato nel 1993 uno dei suoi pezzi più importanti proprio al “potere della parola”, infilando una lunghissima rincorsa di immagini e assonanze: «Rap parola in effetto / Coacervo di metafore / Che esprimono un concetto assoluto e perfetto / Un colpo diretto assestato al sistema / Dal profondo del ghetto spirituale / In cui voglion relegarci ad affogare / In quel mare di chiacchiere impastate / Solo di quella morale si falsa e opportunista / Che usa la censura come arma di difesa / E spara a vista su quanti / Credimi non tanti / Rifiutano ogni forma di controllo».
Sicuramente dovendo scegliere tra una qualsiasi canzone di personaggi di successo come Alessandra Amoroso o dei Modà ed un titolo proposto da un personaggio del rap, quest’ultimo vince facile, per lo meno in varietà dei temi e in forza insolita delle aggregazioni di parole, quasi fosse uno sferragliare di metropolitana. Basta prendere ad esempio la facilità descrittiva di uno dei beniamini del pubblico giovanissimo, Fedez, per farsene una ragione. Ecco la sua L’Italia per me:
«Graffiti come sfondo nato in una frazione di Milano / Cresciuto in una frazione di secondo / Le tipe truccate come commesse di Moschino / E noi per piacere a loro truccavamo il motorino / Il tricolore impolverato appeso in bidelleria / Ogni ricordo è una boccata d’aria di periferia / Quando non si andava a scuola per gli scioperi / Il primo corteo che mi torna in mente con l’odore dei fumogeni / Guardavo i figli ricchi col Montgomery pensando / Non possono permettersi il lusso di essere poveri».

 Parole, musica e silenzio

Insomma: nei decenni la parola ha fatto un suo percorso in musica, e lo sta facendo ancora. In certi momenti con maggior efficacia e successo, in altri producendo temi e significati più comuni e forse meno importanti. Ma non bisogna mai dimenticare che il contrario delle parole non è il silenzio, almeno in musica. Ci sono dischi che si intitolano Silence is sexy e ci sono composizioni classiche firmate da Mendelssohn che si intitolano Song without words. Musica e silenzio vanno a braccetto, possono ancora integrarsi. Semmai quello che proprio non funziona è la musica con parole che non hanno senso, che non hanno immaginazione presente e che non producono futuro. E qui allora il problema si fa grave. Ma forse su questo argomento ci arrovelleremo la prossima volta.