La rivincita di Fort Apache

La parola di don Milani ha liberato Barbiana dal suo silenzio forzato

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 

   La parola si nutre del silenzio di chi ascolta attivamente e del contatto autentico e critico con la realtà. In assenza dell’uno o dell’altro essa muore. Paradossalmente si può anche star zitti per comunicare e parlare per non dir nulla.


Keith Basso, linguista e antropologo, nel tentativo di capire cosa ci fosse dietro al luogo comune dell’indiano taciturno, si è recato in una riserva Apache, ha osservato i comportamenti e chiesto spiegazioni. Risultato in ipersintesi: per qualche tempo gli Apache non parlano con uno sconosciuto o con persone emotivamente alterate.

 L’arrivo di don Milani

Nel dicembre del 1954, don Lorenzo Milani, trasferito a Barbiana, frazione di Vicchio nel Mugello, provincia di Firenze, vi trova il silenzio dei boschi e dei montanari. Sul monte Giovi non ci sono i telai delle industrie tessili della zona di Prato, dove, precisamente a San Donato a Calenzano, don Milani era stato viceparroco dal 1947 fino a quando fu esiliato in montagna per essere stato, troppo evangelicamente (!), dalla parte dei poveri. I ragazzi di Barbiana, invece di fare i turni di notte in fabbrica, si svegliano presto a mungere mucche e pulire stalle. Qui oppressi e oppressori non solo non si scontrano, ma nemmeno si incontrano tra loro. Abitare sui monti significa ormai essere, o almeno sentirsi, esclusi dalla vita civile. Solo dopo l’arrivo di don Milani tra Vicchio e Barbiana ci sarà una strada carrozzabile grazie al lavoro fatto dai ragazzi.
Se confronto il silenzio degli Apache e quello di Barbiana risaltano evidenti le differenze. I primi, per un periodo limitato nel tempo e nello spazio, rinunciano volontariamente alla comunicazione verbale. Ognuno di loro sa che è una scelta temporanea e funzionale ad una futura comunicazione aperta e fiduciosa. A Barbiana, invece, senza limiti di tempo o di spazio, si rifiuta, con o senza parole, la comunicazione che comporta il rischio di un cambiamento. Nessuno sa giustificare un’ostilità sclerotizzata alla comunicazione interpellante ed esistenzialmente significativa. A Barbiana si soffriva da sindrome di accerchiamento, ma in apparente assenza di un nemico che, qui, infatti è tutto interiore. Associati, disistima di sé e sospetto verso ogni novità e ogni estraneo, costituivano un impenetrabile «muro del silenzio» (Esperienze pastorali) contro il quale l’annuncio del Vangelo di Gesù andava inutilmente a infrangersi.
Don Milani propone una soluzione sul «Giornale del Mattino di Firenze» del 20/5/1956: «Io son sicuro dunque che la differenza tra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità, né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia, fra il dentro e il fuori, anzi è sulla soglia stessa: la Parola. I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre insteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradire le infinite ricchezze che la mente racchiude».

 A scuola di vita

E quindi che fare? Insegnare la grammatica era necessario, ma non sufficiente, perché, soprattutto, si trattava di ampliare lo spettro comunicativo sperimentato dai ragazzi di Barbiana.
Perciò, ogni giorno e per diverse ore, a scuola si leggevano e commentavano i giornali, anche durante gli esami. Perciò ogni ragazzo passava una parte significativa delle “vacanze” estive all’estero mantenendosi con il proprio lavoro. Perciò ai borghesi che salivano a Barbiana, don Milani chiedeva di restare pazientemente in silenzio fino a quando non sarebbero stati chiamati direttamente in causa. Ed era questo un momento ben più faticoso di quello precedente. Si trattava infatti di giustificare le proprie scelte di vita di fronte ad alunni ai quali il maestro chiedeva di trovare il coraggio e la “superbia” di interrogare gli ospiti perché condividessero, anche con fatica, i loro più alti ideali di vita e le scelte più importanti che avevano operato in armonia o contro quegli ideali.
La Scuola di Barbiana poi, guidata da don Milani, vince la timidezza di chi pensa di non potere reagire all’ingiustizia subita con la forza di chi la patisce personalmente. Prende autorevolmente la parola sulle grandi questioni dell’Italia tra dopoguerra e boom economico. Le lettere che ne escono sollevano così tanto scalpore da segnare indelebilmente quello scorcio di storia nazionale e da restare nella storia letteraria e culturale della nazione.
Don Milani non ha solo lottato per la decostruzione del «muro del silenzio» dei barbianesi. Da quel silenzio egli ha anche imparato. Le regole dell’arte di scrivere enunciate in Lettera a una professoressa lo dimostrano chiaramente. Si comincia togliendo le parole inutili e quelle che, parlando, non si usano. Il messaggio sarà più chiaro ed efficace quanto più sarà essenziale e vicino al parlato quotidiano.
Si scrive solo se «si ha qualcosa di importante da dire, utile a tutti o a molti» e si raccoglie «tutto quel che serve (informazioni, esperienze dirette, statistiche, ecc. ecc.)» perché l’analisi del problema sia fondata sulla solidità dei fatti e non sulla astrattezza delle ideologie o sulla futilità delle chiacchiere da salotto.
Si trova « una logica comune» su cui ordinare il discorso. Ciò può avvenire solo pagando il prezzo dell’umile e preziosa fatica del dialogo tra diversi.
Sono vietati i «limiti di tempo», non solo perché lo scritto dev’essere meditato e corretto più volte, ma anche per mettersi lungamente in ascolto dei destinatari prescelti, i genitori dei ragazzi bocciati. Il testo veniva loro consegnato perché, dopo averlo letto, dicessero se avevano capito; se, e dove, avevano trovato difficoltà. E così si tornava a correggere per rendere ancora più chiaro e scorrevole il testo non in astratto ma proprio per quei destinatari lì. Bisogna, infatti, ultima regola, «sapere a chi si scrive».

 Una mano tesa al nemico

Il risultato è l’odio che diventa arte. I ragazzi di Barbiana, ingiustamente bocciati dopo il primo anno di scuola superiore magistrale, alla stessa professoressa scrivono: «avessi avuto in quegli interminabili minuti dell’interrogazione il tempo di calmarmi. […]. Ma allora mi venivano solo parole sporche e ingiuriose. Parole che qui per scritto riusciamo a contenere un po’ a fatica e trasformare in argomenti. Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano vien fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi».
Il lavoro artigianale sulla parola dura che abita dentro di noi diffonde, fuori di noi, possibilità autentiche di trasformazione, perché, come si sa, ogni ferita può diventare una feritoia.