Un silenzio più di mille parole

Il tacere di Francesco è rispetto per gli altri e lasciare l’ultima parola al perdono 

di Stefania Monti
clarissa cappuccina di Lagrimone

 Non c’è regola monastica che non parli del silenzio, compresa quella di santa Chiara (cap. V, FF2783-2786). Si tratta quasi sempre di un silenzio “normato”: si dice da chi, come, dove, quando e quanto a lungo debba essere osservato.

Per esempio l’Ordo Monasterii, regola di ambito agostiniano della fine del IV sec, prescrive il silenzio a tavola, cosa che poi è divenuta quasi di norma per tutti. Di particolare importanza quello notturno, non solo per ovvi motivi pratici. La notte infatti può essere il tempo che rimanda alla morte e sepoltura di Cristo, come ricorda ancora oggi la preghiera conclusiva della compieta del venerdì.
E c’è poi un silenzio che direi “normativo” perché costitutivo di uno stile spirituale: se ne indica lo scopo, la finalità, si precisa che non è solo esterno, ovvero un vuoto di suoni e di parole, ma soprattutto un controllo interno di sé, una specie di riposo del cuore in Dio e nell’ascolto della sua parola. In questo senso è grazia, da chiedere umilmente prima di tutto, anche per comprenderne l’importanza e la necessità. In seconda battuta è esercizio. Su questo si può vedere utilmente la regola di Benedetto che in più punti lo descrive come l’atteggiamento proprio del discepolo.

 La grazia di starsene zitti

Francesco non ha niente di tutto questo nelle sue Regole, se non in quella degli Eremi in cui parla appunto di una grazia del silenzio che definirei normato (FF 137). Ma sarebbe troppo facile concludere che Francesco non parla diffusamente del silenzio perché i frati non sono monaci. Perché in un punto ne parla in maniera che non esiterei a definire provocatoria
Rnb XI, 1-2 (FF 36) recita infatti: “E tutti i frati si guardino dal calunniare qualcuno, ed evitino le dispute di parole, anzi cerchino di conservare il silenzio, ogniqualvolta Dio darà loro questa grazia”.
Leggendo tutto il capitolo XI mi pare si abbia un quadro della fraternità poco confortante. Vien da pensare infatti che nessuno farebbe certe esortazioni se non ce ne fosse un motivo concreto: “non litighino tra loro, né con altri, … non si adirino…, non oltraggino nessuno…, non mormorino..., non detraggano…, non giudichino e non condannino”. Naturalmente c’è anche il risvolto positivo: “procurino di rispondere con umiltà…, si amino scambievolmente…, mostrino con le opere l’amore che hanno tra loro…,” per concludere “si sforzino di entrare per la porta stretta”. Ma la prima parte del testo, quella negativa, fa pensare che i rapporti non fossero propriamente cordiali.
Il tema della disputa torna invece al cap XVI per coloro che vanno tra i saraceni.
In breve: la grazia del silenzio è ordinata alla vita fraterna nella quale non solo a tutti sono dovuti il rispetto e la serenità delle relazioni, ma dove il tacere è spesso (non sempre!) una salvaguardia dei rapporti, ed è ordinata, da ultimo, al dialogo con i lontani.
Il testo di Francesco fa pensare a un silenzio cristiforme, che non solo non risponde alle provocazioni, e soprattutto non ne solleva, ma è un silenzio preoccupato della verità e della carità. Non si tace per puro quieto vivere, ma neppure si attacca briga o peggio, per affermarsi. E perciò non si calunnia - oggi poi che oltre che un peccato la calunnia è anche un reato e pochi pare se lo ricordino -, non si mormora, non si oltraggia e così via.

Tacere per affidarsi

Ma per capirci meglio, suggerirei di rileggere i racconti della passione dai quali, se vedo bene, emerge che cosa sia un silenzio autentico e quindi la grazia del silenzio che potremmo o dovremmo chiedere. Prima di questi racconti, Gesù predica, insegna, ammonisce, è fatto segno di polemiche, senza polemizzare a sua volta e, soprattutto, raccomanda più volte di non parlare o dei miracoli o dei segni che lo riguardano (a partire da Mc 1,34, in diverse occasioni).
Tale segreto messianico trova il suo naturale esito nella passione e nella croce, che sono il suo vero discorso più eloquente. Esso è preceduto da Gesù che tace durante gli oltraggi (Mc 14,65), davanti a Pilato e al sinedrio (Mt 26,63, Mc 15,1-5) con i quali non si difende, anzi, semmai aggrava la sua posizione (Mt 26,64), e infine sul calvario, fino al grido finale del sal 22 o del sal 31, nel quale culmina il suo silenzio da giusto perseguitato. Fino a quell’ultimo grido infatti non proferisce parola, quasi che fossero i fatti e la croce a parlare per lui.
Seguendo questa traccia si vede bene che il silenzio a cui fa riferimento Francesco è quello di chi non solo non calunnia e non aggredisce, ma neppure risponde, e questo non per resistenza passiva, anche se ne ha l’apparenza, ma come affidamento di sè a Qualcun altro. Quale che sia infatti il salmo pronunciato da Gesù al momento della sua morte, se si tratta del 22 - secondo Matteo e Marco - suona come il grido di colui che si abbandona senza sperimentare conforto; se si tratta del 31 - secondo Luca -, abbiamo invece la parola di chi si abbandona in maniera confidente e, direi quasi, serena. Curiosamente sono parole in certo modo non sue, ma della pietà popolare del suo tempo, perché già all’epoca di Gesù un pio ebreo diceva i salmi a memoria di continuo.
La grazia del silenzio ha pertanto come esito la “giusta” parola, quella adatta, appropriata, che si addice a un giusto e che lo rimanda a Colui che abita nei cieli.
Dalla grazia del silenzio scaturiscono allora per Gesù due parole: la croce come compimento del segreto messianico e due salmi. In apparenza sono parole non sue, ma di cui egli si deve appropriare aderendo in tutto alla morte che gli è posta dinanzi.

 Un mondo di fraternità

È in questo modo che nasce la sua definitiva parola in cui tutto si armonizza: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Il perdono in cui si coniugano carità e verità, il riconoscimento del male e la rinuncia alla vendetta, è in fondo ciò che sta al cuore dell’Evangelo e che - e Francesco lo sa bene - permette di costruire un mondo di fraternità. Il punto di partenza però, come confermano diversi testi del Nuovo Testamento, è il controllo della lingua e, direi, persino quello della voce. Rileggendo il terzo capitolo della lettera di Giacomo, per esempio, si coglie tutto il problema del parlare e del come parlare. Anche nella sua comunità doveva esserci qualche problema, perché è un problema antico e sempre nuovo, un elemento di conversione spesso sottovalutato, ma formidabile. Un vero punto di partenza.