Relazione. In carcere è ciò che manca, ma anche, paradossalmente, ciò che salva. Un buon compagno di cella, l’attesa della visita dei famigliari (ce la faranno?). E poi gli educatori, gli assistenti e tutti gli altri, che più o meno gratuitamente fanno attività con noi mentre noi viviamo di una sola grande attesa: che le porte di tutti i compagni di sezione sbattano perché, finalmente, è giunta l’ora di traslocare!

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Che relazioni dietro le sbarre? 

Le relazioni in carcere sono importanti, ma non riesci a viverle come vorresti

 LE RELAZIONI DIETRO LE SBARRE

Coincellino

Eccomi qua. Dopo undici anni sono tornato a ricoprire il ruolo di detenuto per scontare un cumulo di pena per un totale di sette anni e dieci mesi.

Nel mondo carcerario non hai la possibilità di scegliere il tuo compagno di cella. Divido la stanza con un ragazzo di trentasette anni, di cui dodici trascorsi in carcere, è il mio “coincellino”. Chiacchierando con altri detenuti, ho capito di essere tra i pochi fortunati ad avere un coincellino di tutto rispetto, garbato e cortese, ma soprattutto maniaco della pulizia.
Il primo giorno mi ha elencato quali sono le regole della cella, che ho pienamente condiviso, in quanto tutte a mio vantaggio: in televisione si può guardare ciò che si vuole e, poiché entrambi non amiamo cucinare, ci accontentiamo di ciò che passa il carrello. Essendo fissato per la pulizia, il mio coincellino ha deciso che questo compito spetta esclusivamente a lui. Devo ammettere che è perfetto. A tal proposito devo rilevare che, come coincellino, l’amministrazione penitenziaria ha indovinato l’assegnazione.
Non tutti, però, hanno la fortuna di trovarsi bene con il proprio compagno di cella, dovendosi così adattare, malvolentieri, alla convivenza forzata. Esiste, però, la possibilità, presentando la domandina oppure facendo un colloquio con l’ispettore di sezione, di cambiare cella. Ho notato, tuttavia, che questo evento viene accompagnato da commenti feroci e taglienti.

Maurizio Bianchi

 In attesa delle porte che sbattono

La verità è che non mi sarei mai immaginato di poter intrattenere tanti e così vari tipi di relazioni all’interno del carcere. Dico vari tipi, perché ogni relazione nasce da un incontro ed ogni incontro lascia un’emozione diversa. Gli incontri io li dividerei, almeno secondo il mio metro, in tre gruppi: familiari, socializzanti e di routine.
Le relazioni familiari suscitano emozioni e stati d’animi molto forti. Mi limiterò a dire che, senza ombra di dubbio, sono le relazioni che più ti segnano nel corso della permanenza nel carcere. Costituiscono l’unico momento di contatto diretto con la famiglia. Si parla di tutto quello che fino a prima era il tuo modo di vivere, di quello che succede a casa, di quello che fanno loro e di quello che faccio io. È inutile dire che, questo tipo di relazione, è quella che più aspetti da una settimana all’altra.
Quanto alle relazioni socializzanti, è ovvio che si riferiscono ai contatti che tu hai con i compagni di detenzione. Poiché ogni detenuto viene inserito in una sezione e, poiché in ogni sezione si trovano cinquantadue detenuti, risulta facile immaginare che le tue relazioni si svolgono in questo ambito, infatti è molto difficile avere contatti con detenuti di altre sezioni.
Anche all’interno della propria sezione, com’è naturale, si sviluppano relazioni che tendono ad incentivare alcuni rapporti piuttosto che altri. Primo fra tutti il tuo compagno di cella. Persona che incontri per caso e con la quale sviluppi più o meno rapporti amichevoli data la forzata convivenza. Ad onor del vero da quando sono qui, ho avuto sette compagni di sventura, quattro persi per uscita, due per incompatibilità di carattere e quest’ultimo con cui sembra vada bene. È logico che, vivendo tanto tempo insieme, si sviluppa una certa confidenza, ma molto più da parte del mio compagno che da parte mia, perché io sono piuttosto chiuso per quanto riguarda la mia vita esterna.
Seguono altri compagni di sventura che sono nella tua sezione e con i quali condividi modi di pensare. Si fanno e si ricevono visite nelle celle, si gioca a carte, si va all’aria insieme, insomma si socializza come dovrebbe fare ogni bravo detenuto. Se non ci fossero questi momenti, la vita all’interno del carcere sarebbe veramente una cosa grama.
Infine le relazioni di routine, quelle cioè che ti trovi ad affrontare durante il periodo di carcerazione solo saltuariamente, con assistenti, volontari ed educatori. Gli assistenti sono parte integrante della vita detentiva, sono in ogni dove anche perché ci devono essere. Non è che le relazioni siano molto intense, ma comunque qualche parola ogni tanto si scambia. Anche in questo caso tutto il mondo è paese, c’è chi è più, chi meno simpatico, chi è più alla mano, chi meno, ma basta capire e vai sul sicuro. Una volta uno di loro mi ha persino ringraziato per aver fatto una conversazione di circa un’ora con lui.
Tutt’altro sono invece le relazioni con gli educatori, ammesso che uno ne abbia. Ho avuto la fortuna di fare tre colloqui, brevi ma molto fattivi, con il mio educatore. Devo ammettere che, a parte l’avvocato, è stato l’unico ad interessarsi di me e a darmi qualche valido consiglio.
Quindi la vita relazionale è tutta qui e non è certamente da svalutare. Come ho detto, le relazioni, quali esse siano, rappresentano una variazione assolutamente positiva della vita carceraria e ti danno la forza di andare avanti. In attesa che arrivi quel giorno dove tutti quelli della tua sezione sbattono le porte delle celle perché tu te ne stai andando.

Valerio De Fazio

 Le relazioni in carcere

Esistono davvero relazioni, qui dentro? Semmai esistono “correlazioni” legate al reato, alla possibilità di ravvedimento, alle opportunità di reinserimento, così come prevede la nostra Costituzione. Provo a spiegare il mio pensiero. Da fuori senz’altro il carcere è visto come il luogo delle “non relazioni”, e io penso che tutto sommato sia così. Il primo periodo di reclusione di solito distrugge tutte le relazioni che ogni persona porta con sé, taglia quel cordone ombelicale di legami buoni o cattivi che fossero, che comunque venivano coltivati fino al giorno prima dell’arresto. E questa “spersonalizzazione” è quasi sempre il punto di partenza. Col trascorrere del tempo chi vive recluso inizia a entrare nel suo nuovo ambiente di vita, e inizia a rapportarsi con tutte le persone che con lui ci vivono, anche se, ovviamente, non se le è scelte. L’ambiente è ostico e diffidente, non consente approcci immediati e sinceri; è quindi necessario mettersi in ricerca, per capire quali risorse ed opportunità si possono trovare anche dietro le sbarre. È come se le relazioni autentiche fossero una possibilità nascosta, che occorre desiderare e cercare con attenzione.
Dopo tanto tempo che vivo qui, posso dire che queste possibilità le ho trovate, anche se in un ambito che definirei “istituzionale”, come dicevo legato al percorso di ravvedimento rispetto al mio reato. Mi riferisco in particolare a psicologi, volontari ed insegnanti. Pur nei limiti di un rapporto istituzionale, ho trovato apertura sincera e comprensione empatica, e credo di poter dire realisticamente che si tratta di relazioni cariche di pienezza e verità, che mi hanno aiutato nel cammino di consapevolezza e revisione critica del mio vissuto. Ma a parte queste poche occasioni, purtroppo, nella maggior parte dei casi, qui le relazioni non possono decollare, perché la falsità e l’opportunismo soffocano la potenzialità dell’incontro fra le persone. Per lo più si ricerca un tornaconto, i presupposi sono “malati” fin dall’inizio e non è facile sentire la libertà di scegliere, coltivare e rendere unico il legame con chi incontriamo nella nostra quotidianità. Io cerco di evitare il più possibile di invischiarmi in relazioni che sento false e che potrebbero solo danneggiarmi.
Anche le relazioni familiari sono insipide, perché mancano della presenza costante e non possono certamente essere coltivate con un’ora di colloquio visivo alla settimana, durante il quale spesso non si dice nemmeno la verità per non ferire o preoccupare chi ci viene a trovare.
L’unica relazione sincera che si può stabilire in carcere è con sé stessi. Il tempo passato a riflettere ci aiuta a conoscerci meglio e più in profondità rispetto alla vita di prima. Molti incontrano la fede, e senz’altro la vita di reclusione aiuta questa riscoperta interiore del proprio credo.
Per concludere: faccio fatica ad inquadrare ciò che ho vissuto e che vivo tuttora qui dentro. Ho avuto qualche incontro importante, ma so che non si tratta di relazioni che faranno parte della mia vita futura. Però alcune di queste hanno stimolato le mie riflessioni e questo è il massimo che ci si può aspettare da questa condizione di vita. Va veramente dato atto a tutte le persone che operano in carcere con spirito di aiuto e comprensione: questa apertura umana fa loro onore a prescindere che si tratti o meno di relazione vera ed autentica.

Daniele Villa Ruscelloni

 L’affetto che non ho

Avere affetto nel luogo in cui ci troviamo è molto difficile. Prima di tutto perché, essendo rinchiuso fra quattro mura, non puoi avere contatti con le persone care come vorresti, ed in secondo luogo perché anche quando riesci a fare un colloquio con i famigliari ci sono tante cose di cui si deve e si vuole parlare, e il tempo vola via.
Interagire con il mondo esterno è molto difficile, non riesci a ricevere affetto e a darlo nel modo in cui sarebbe necessario, pensi continuamente ai tuoi famigliari, pensi al fatto che non riesci a dare loro l’aiuto che vorresti, se hai dei figli o dei nipoti pensi alla loro crescita che ti stai perdendo, alla loro quotidianità.
Diversamente da quando sei fuori e dai a loro tutto quello che desiderano, chiuso tra queste quattro mura non puoi dare loro neppure un abbraccio o una carezza.
Prima di ogni colloquio c’è sempre il dubbio se i tuoi cari possano venire o meno. Fuori ci sono molti problemi, non tutte le famiglie hanno le possibilità economiche per sostenere gli spostamenti, inoltre se sono coinvolti dei bambini si aggiungono le problematiche relative alla scuola.
Nonostante la piena consapevolezza delle difficoltà che può incontrare la tua famiglia, speri sempre fino all’ultimo di vederli, perché avere un contatto con i tuoi cari è molto importante, anche solo una carezza ai figli o un abbraccio alla propria compagna significano tanto, per cercare di dare un po’ di conforto alla loro sofferenza.
Anche nel caso in cui un tuo familiare venisse a trovarti ci sono altre difficoltà dovute alle circostanze di tempo e di luogo in cui avviene l’incontro: il colloquio dura un’ora, le cose da dire sono tante e non fai in tempo a parlare che il tempo è finito.
Alcune cose per posta non riesci a dirle, vorresti riuscire a dire a voce quel “ti voglio bene” e a trasmettere quel senso di sicurezza di cui l’altra persona ha bisogno, ed in questo contesto non è semplice.

Filippo Milazzo