Sopraffatti da un granello di sabbia

Perdere tempo e lasciare spazio: le modalità per migliorare le relazioni

 di Pietro Casadio
della Redazione di MC

 Conto alla rovescia

Poniamo, così, per caso, che si faccia parte della Redazione di Messaggero Cappuccino e che si debba consegnare un articolo entro il 4 ottobre.

Per non essere troppo ossequiosi nei confronti del potere istituito (il direttore), ci si conserva gelosamente in agenda la sera del 5, come momento prescelto per assolvere al proprio dovere. I piani sembrano perfetti: ogni momento, ogni minuto della giornata, è stato calcolato con millimetrica precisione per garantire un’autonomia di due ore e mezza. Quanto basta per scrivere qualcosa di fintamente intelligente e non sfigurare troppo. Poi, inesorabile, l’intoppo, il granello di sabbia che blocca quegli ingranaggi così ben oliati: alla figlia, cinque mesi e fresca di vaccino, giunge la balzana idea di farsi venire la febbre e, con essa, pure un discreto nervosismo. È il finimondo: urla, lamenti e strida. La bimba va intrattenuta, calmata, cullata e la sola mamma non basta. O non è giusto che basti, quantomeno. Il tempo corre e scrivere un articolo con una mano sola, intanto che l’altra intrattiene, calma e culla richiede più di due ore e mezza. E così, con l’occhio che ritorna continuamente all’orologio, alla sedicesima intonazione de “Il coccodrillo come fa”, un tarlo, infido e malvagio, avanza nella mente un sospetto inquietante: “STAI PERDENDO TEMPO”. La situazione precipita: il sospetto è seguito da un istantaneo irrigidimento; la bimba, in virtù di qualche misterioso istinto primitivo, percepisce la tensione e scoppia in un pianto furente. L’operazione “Fai la nanna” va a farsi friggere. Tutto da rifare. La conclusione dell’articolo si allontana e l’ombra minacciosa del direttore incombe.
Ora, credo di non essere l’unico neobabbo ad aver intonato per centinaia di volte la stessa maledetta canzoncina. E spero di non essere l’unico ad aver provato, magari in un istante, la sensazione di star perdendo tempo. Una sensazione terribile per chi, come me, è abituato a incastrare gli impegni nella giornata senza lasciare margine di imprevisto. Eppure sono convinto di questo: per coltivare una relazione di qualità, bisogna essere disposti a perdere tempo. Lo so anche grazie a mia moglie. Lei ha un ritmo diverso dal mio: più lento, più pacato, meno frenetico. Della serie che quando dobbiamo fare un salto rapidissimo al supermercato a comprare l’insalata, lei guida il carrello con tutta tranquillità e proprio a due passi dal cespo di iceberg, si ferma pensosa a guardare una scatola di zucchero in granella e dopo almeno venti secondi (venti!) mi chiede: «Ci potrebbe servire?». E io dentro di me penso “è tardi, è tardi, è tardi”. Il suo animo, ben più del mio, è disposto a sprecare tempo. Lei, molto meglio di me, sa perdere le sue ore a scrivere biglietti di auguri curati in ogni dettaglio o a impaginare con dedizione un volantino che vedranno due o tre persone.

 Perdere tempo per vivere il presente

Qualcuno di voi forse mi potrà dire: “Il tempo speso per gli altri non è mai perso”. Eppure è proprio questo il verbo che ritengo più giusto usare: perdere. Per due ragioni: la prima è che l’istinto utilitaristico che è in ognuno di noi è così che percepisce quei momenti apparentemente infruttuosi. La seconda - sono pur sempre un prof di italiano - è l’etimologia: la parola “perdere” significa “dare per”, “dare via”. Ed è proprio questo l’aspetto interessante: perdere tempo significa dare via tempo, per qualcosa o per qualcuno che, evidentemente, lo meritano. Non ritengo forse mia moglie o mia figlia, degne di tutto ciò? La relazione di qualità è incompatibile con la perenne corsa di chi vuol fare tutto in tempo. E poi: correre per arrivare dove? Far tutto in tempo per poi fare cosa? L’ottica di chi vive correndo è quella dell’accumulo, del fare tutta la fatica adesso per riposarsi poi, del vivere in funzione del dopo, quando finalmente la corsa sarà finita e tutti i doveri saranno assolti. Perdere tempo invece significa vivere il presente, sentirlo in tutto il suo spessore e la sua fatica, ma anche gustarlo. Ecco. Questo dovrei pensare quando intrattengo incessantemente Michela o quando accompagno mia moglie a fare la spesa: mi sto dando il tempo per gustare il momento presente. Mi sto dando il tempo per amare.
Beh, abbiamo fin qui parlato di tempo, bisogna che dedichi qualche riga anche allo spazio. Perché la dimensione dello spazio, quanto quella del tempo, risulta nelle relazioni sempre delicata e determinante. E se il verbo del tempo era il “perdere”, il verbo dello spazio sarà il “lasciare”.
In prima superiore ho uno studente che ha la malsana abitudine di alzare la mano mentre sono nel pieno della mia spiegazione di storia e fare interventi, sì attinenti alla materia, ma per nulla pertinenti con l’argomento che stiamo trattando. Ora, io apprezzo molto la curiosità e credo che debba essere incoraggiata, ma rimango sempre un po’ turbato quando mi viene posta una domanda su Napoleone mentre parlo dell’Homo erectus. Certe sinapsi degli studenti, sono imperscrutabili quanto i misteri della fede. O qualcosa di più. Fatto sta che questo studente è un po’ impacciato e un po’ timido e, benché mi costi un po’ di fatica, ritengo necessario lasciargli questo piccolo spazio all’interno della lezione. Perché? Forse perché sento che ne va della mia relazione con lui. Occupare tutto lo spazio che potrei prendermi, significherebbe sottrargli un’occasione di relazionarsi con me e con il resto della classe.

Allentare l’ansia di controllo

Lasciare spazio è tanto faticoso quanto perdere tempo. Siamo abituati ad occupare tutto ciò che viene lasciato libero da altri. Non a caso il papa, nell’Evangelii gaudium, ha esortato a iniziare processi piuttosto che possedere spazi. E credo che nelle relazioni questo sia più vero che mai. È difficile e importantissimo lasciare all’altro lo spazio per essere se stesso, per emergere per quello che è, e non per quello che noi vorremmo che fosse. Lasciare che l’altro sia, e basta, senza dover dire sempre quello che pensiamo. Lasciare che l’altro sia anche nei momenti brutti, e questo è per me il massimo della difficoltà. Vedere triste una persona che amo mi suscita un fortissimo istinto di agire per eliminare quella tristezza. Eppure, è bello stare accanto, è bello consolare, ma bisogna lasciare all’altro lo spazio per essere triste, quando ce n’è bisogno. È un diritto, quello alla sofferenza, che non si deve assolutamente soffocare.
Mi concedo, per concludere, una seconda parentesi etimologica: il verbo “lasciare” significa “allentare” e “allargare”. In fondo, direi, perdere tempo e lasciare spazio mi insegnano questo: allentare un po’ la mia ansia di controllo sull’esistenza, allargare corde con cui tento di imbrigliarla e vedere dove la vita vuole trascinarmi. Perché voler controllare tutto significa mettere le manette alla Provvidenza, ostacolare la sua azione e la sua fantasia. Significa abolire la sorpresa, perché lo stupore non si può programmare. E, a proposito di stupore, bisogna proprio che concluda quest’articolo, perché la febbre di mia figlia è passata, ma la sua voglia di perdere tempo è più forte e meravigliosa che mai.