Luca Moscatelli, teologo esperto di missionarietà, al Convegno provinciale di ottobre 2016 “Quale Vangelo dalle nostre Missioni?”, ha tenuto una Lectio sul mandato missionario “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli…”. Ne presentiamo qui una sintesi

Saverio Orselli 

Non possiamo tacere

Missionarietà è la gioia di sentirci perdonati che ci invita all’incontro con gli altri 

di Luca Moscatelli
teologo e cultore di esegesi biblica

 Ce l’ha chiesto lui

Dopo il Concilio, ma in particolare dopo Evangelii Gaudium, non ci possono essere più dubbi: non si può essere Chiesa se non nella missione, nella evangelizzazione.

E d’altra parte l’evangelizzazione, la missione non può che essere un atto ecclesiale, se è la missione di Gesù, secondo il suo cuore. Partiamo dal testo del mandato missionario che conclude il vangelo di Matteo (28,16-20): «Gli undici discepoli intanto andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”».
Si tratta di un testo interessante, perché vi compare la parola “potere” - «mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» - che è la categoria fondamentale della riforma tridentina. Semplificando rozzamente, la riforma tridentina alla domanda sul perché si va in missione risponde “perché ce l’ha detto il Signore”; non serve altra motivazione, ce l’ha comandato e ci ha dato il potere di fare quel che ci ha chiesto di compiere. Negli studi soprattutto degli ultimi decenni, si è cercato di comporre, di bilanciare questa interpretazione già peraltro messa in crisi dal Concilio. In maniera molto autorevole Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio diceva che si va in missione perché c’è una sovrabbondanza di gioia nell’incontro con il Signore, per cui non possiamo tacere, non possiamo tenere solo per noi questo dono immenso destinato a tutti.
Per venire incontro a una storia delle missioni che si configurava anche e in maniera molto significativa come promozione umana - “autorizzata” dalla Evangelii Nuntiandi - si è cominciato a indicare come la missione sia radicata anche nel discorso di Gesù alla sinagoga di Nazaret (Lc 4,18-19) dove si dice che Egli è stato consacrato con l’unzione per andare a portare una buona notizia ai poveri, per ridare la vista ai ciechi… C’è il mandato positivo del Signore risorto, ma c’è anche la prassi messianica del Gesù prepasquale, come si usava dire qualche anno fa. Questa giustapposizione tra le due visioni è rimasta estrinseca, con i fautori della prassi messianica e quelli della prassi sacramentale; noi poi siamo dei campioni a semplificare le cose, distinguendo tra quelli che “portavano i sacramenti” e quelli che si sentivano “assistenti sociali”: forse una lettura più attenta del passo di Matteo avrebbe potuto condurre a una sintesi migliore.

 Riscoprire la radice

L’esperienza e la riflessione di questi anni - e poi certamente papa Francesco - ci hanno spinto e ci spingono a riscoprire la radice della missione, consegnandoci insieme l’attualità del Concilio e soprattutto la bella, buona evidenza biblica della sovrabbondanza divina. Cominciamo a capire che la missione non è soltanto una questione di autorizzazioni, meno che mai sacramentali, ma piuttosto di gratitudine per la sovrabbondanza di un dono che ci fa dire, con Paolo, “non possiamo tacere”.
La motivazione della missione è nella struttura stessa dell’esperienza della fede di tutti. È la struttura dell’esperienza di fede che chiede a chiunque si metta alla sequela del Maestro di Nazaret di assumersi una responsabilità missionaria. Certo i soggetti storici che erano depositari di un mandato missionario un po’ se la sono presa - se tutti sono missionari nessuno più è missionario speciale o specifico… - e tutti hanno cercato di ritagliarsi il loro specifico, senza intendere che nella chiesa non funziona così.
Non è che i contemplativi esigono il monopolio della preghiera; a tutti è chiesto di pregare e i contemplativi sono il paradigma; a tutti è chiesta la missione, i missionari “ad gentes” sono il paradigma; a tutti è chiesto di condividere ed essere corresponsabili in un servizio pastorale alla comunità di fratelli e sorelle, i pastori sono il paradigma. A tutti è chiesta un’alleanza sponsale, gli sposi sono il paradigma… il che non vuol dire che hanno in esclusiva la sponsalità. Lo stile di Gesù è lo stile della missione: la vicenda del Maestro diventa quindi un riferimento indispensabile per pensare la missione alla quale siamo chiamati tutti noi. Lì si vede davvero il dono e la sua sovrabbondanza.
Uno dei tratti distintivi dello stile di Gesù è l’itineranza. Gesù è un Maestro itinerante; ha fatto questa scelta dall’inizio, distinguendosi in maniera decisa e precisa da Giovanni Battista. Il Battista si è messo in un deserto e ha detto: “Chi vuole convertirsi, venga”; Gesù torna in Galilea e gira di villaggio in villaggio. I toni del Battista sono un po’ minacciosi, Gesù annuncia il regno di Dio con perdoni, guarigioni, esorcismi. Gesù è itinerante perché vuole portare a ognuno l’annuncio che il Padre non ti aspetta da qualche parte, fuori dalla tua esistenza normale, ma viene a chiedere la tua ospitalità, là dove tu vivi. Per rivelare un Dio che viene a casa tua, non si poteva che andare itineranti e arrivare però - questo è il prezzo che si paga quando si fa gli itineranti - ovunque da forestieri. Sempre un itinerante quando arriva da fuori è forestiero. Dio è uno straniero che certo offre ospitalità e ha già offerto ospitalità a tutti nel suo amore di Padre, ma quando si presenta nella tua vita ti chiede la grazia di aprirgli la porta.

 Itinerante e ospite

Il missionario certamente ospita tutti, è disposto nei confronti di tutti. Ma il primo gesto di un missionario che arriva in un luogo è di chiedere che siano loro a ospitare lui, che arriva da straniero e non da padrone e nemmeno da persona di casa. Pensiamo alle nostre missioni… quante volte abbiamo fatto cose immonde, costruito opere anche utili per la gente, ma senza preoccuparci dove le costruivamo, di chi erano quei terreni… “Facciamo tutto questo per il bene loro, potranno pure lamentarsi?” e magari erano luoghi sacri, magari a quei luoghi erano legate memorie ancestrali… noi siamo arrivati, abbiamo spianato, abbiamo costruito ma poi la gente non veniva. “Ma perché non vengono? È gratis!”. Ecco, questo è l’atteggiamento di chi è arrivato da padrone, con i dollari, e senza chiedere ha fatto la sua cosa, per il bene naturalmente. Dice un proverbio che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
La dinamica della missione si attiva grazie all’incontro con il Risorto, che permette di ritrovare per la strada molti segni del vangelo e insieme di guadagnare la certezza della presenza del Signore. Siamo invitati potentemente a ricollocare la missione al centro dell’attenzione e il mandato missionario all’interno dell’intera narrazione evangelica, per mostrare la sua capacità di farci immaginare, o come dice papa Francesco “sognare”, la chiesa e la sua missione davvero secondo il cuore di Gesù. Ma saranno necessarie anche alcune riforme. Bisogna essere chiari: riforma vuol dire cambiare la forma, non vuol dire ritoccare, una riforma deve toccare la forma attuale che non è più adeguata per tanti motivi.
Una riforma la chiedeva il Concilio e ora siamo in ritardo di cinquant’anni. Ora la chiede papa Francesco con una certa insistenza. A Firenze nel novembre 2015 ha chiesto di riprendere sinodalmente la Evangelii Gaudium a tutti i livelli di Chiesa, ma oggi, a distanza di un anno cosa è stato fatto? Un anno perso di questi tempi vale come dieci di una volta! La sensazione è che su questa cosa nessuno stia muovendo un passo; forse, timidamente, qualcuno sta pensando, progettando qualcosa per il prossimo autunno… vedremo. Se ci sono tutte queste resistenze è perché i problemi sono reali, sono grandi, il nostro imbarazzo pure, la nostra incapacità a immaginare anche, manchiamo di coraggio forse, ci stanno bene tante buone abitudini probabilmente, abbiamo paura di perdere anche quel poco che resta. Tutte queste cose però non hanno molto a che vedere con il vangelo.
Nel racconto di Matteo, i discepoli sono convocati in Galilea dal Risorto, dopo che è apparso alle donne. Non si può leggere il mandato missionario riportato da Matteo prescindendo dal contesto almeno del capitolo 28: il Risorto infatti è già apparso alle donne. Ora se i discepoli arrivano in Galilea è perché qualcuno gli aveva già dato la buona notizia che Gesù è risorto, il sepolcro è vuoto. Quindi l’incontro con il Risorto è reso possibile dalle donne, testimoni che anticipano la notizia… ma come potevano credere alle donne? Bisogna ammettere che alle donne loro hanno creduto e, alla fine, sono andati. In Galilea, dove tutto era iniziato e dove tutto ricomincia, perché il primo giro della sequela è fallito con il venerdì santo che vede tutti i discepoli fuggire, mentre le donne guardano sia pure un po’ a distanza, uniche testimoni della croce, della sepoltura e della risurrezione. Ha un bel dire Luca che gli apostoli sono i testimoni oculari di quel che è successo dal principio fino al giorno in cui è stato tolto di mezzo tra noi… non c’erano. Uno aveva tradito e venduto il Maestro, l’altro l’aveva rinnegato tre volte e gli altri se l’erano squagliata.

 Esperienza del Risorto

Tutto questo è importante, perché mette subito una tonalità alla questione dell’incontro con il Risorto, del mandato che si riceve e del potere che viene dato: la tonalità è l’umiltà. Queste sono persone a cui è concessa per grazia e misericordia una seconda possibilità senza alcun merito: chi, dopo una prova tanto disastrosa, non avrebbe cercato gente migliore, più affidabile? Ma, come avviene in tutta la Bibbia, Dio offre una seconda possibilità, e anche con i discepoli decide di investire ancora su di loro, non certo perché fossero i migliori: il tradimento decisivo era venuto non da quelli di fuori, ma da quelli di dentro, da uno di loro e come loro. Semmai erano una bella selezione di peccatori perdonati.  Ecco, non comprendendo questa partenza, tutto è falsato, perché tu vai dal peccatore con un atteggiamento di degnazione che non ha nulla a che vedere con la missione: quello è un fratello che come te è peccatore e come te deve essere perdonato. Quello è un fratello che ha tanti bisogni come te, che ha o ha avuto o avrà bisogno di cure come te, bisogno di misericordia, come te. Ecco, la prima grande sproporzione che Gesù chiede al missionario, al suo discepolo, l’umiltà di considerarsi per quello che è, inadeguato, ma insieme l’immensa gratitudine di accogliere un dono che è segno di una fiducia straordinaria. Dio crede in noi.
La seconda sproporzione è l’impresa immensa di fare discepoli tutti i popoli. L’estensione è incredibile, coincide con il mondo. «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!”» (Mt 9,36-38). Il primo atto della missione è la compassione, il secondo non è mettersi a fare delle cose, ma pregare per non essere soli. Questo valeva per Gesù, questo vale anche per noi. Andate - ci dice - ce la potete fare. Pieni di questa compassione e di questa speranza, perché tutti hanno il diritto di conoscere il Regno di Dio. Il Regno di Dio nel vangelo di Gesù mi pare si possa definire “la cura paterna di Dio”, una cura che man mano che si sviluppa la missione di Gesù assume i confini del mondo, perché tutti sono figli di Dio Padre.
Nel vangelo Gesù ci dice: «Io sono con voi tutti i giorni e fino alla fine del mondo» e «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» e ancora «Ogni volta che avrete fatto questo a uno di loro l’avrete fatto a me» e dunque la presenza di Gesù è nell’incarnazione, nella comunità dei credenti, nei poveri e bisognosi. Ora tocca ai discepoli andare: la missione è il luogo dell’esperienza della presenza del Risorto. Se andate, battezzando, insegnando… io sarò con voi fino alla fine del mondo. Ma dovete andare… andate dunque e state attenti perché inciamperete su tanti che avranno bisogno, non scansateli magari con la scusa che dovete andare a celebrare un battesimo o una liturgia, come hanno fatto quel sacerdote e quel levita della parabola del buon Samaritano.