Tu sei

Le Lodi di Dio Altissimo raccontano la confidenza e l’affetto di figli verso il Padre

 di Pietro Pagliarini
guardiano del convento dell’Osservanza a Bologna

 L’uomo fatto preghiera

In modo geniale, l’uomo “fatto preghiera” Francesco ha declinato il nome antico di Dio «Io sono» nella più bella preghiera che è allo stesso tempo riconoscimento di un cuore che ama: «Tu sei»!

Non è forse l’urgenza più evidente degli innamorati di aprire e cantare tutto il ventaglio delle cose belle che l’amato/a suscita in loro? Prima ancora di esaminare ciascuno dei “nomi” e qualità che Francesco riferisce al suo Signore, stupisce il ritmo quasi martellante delle due parole che ricorrono continuamente: «Tu sei». C’è già tutto, c’è la scoperta che l’Altro esiste, che esiste per me, di fronte a me, che è effettivamente un interlocutore fuori da me, ma allo stesso tempo in relazione intima e profonda. Allora non ci si stanca di ripetere la novità che l’altro rappresenta per me; è la ripetizione tipica degli innamorati, quella che non affatica, anzi, che non diventa mai routine o formula di cortesia perché è un ripetere senza saziarsi lo stupore che l’amato ci sia per me.
C’è qui l’esperienza dell’estasi, da ek-stasis: vivere al di fuori di sé, vedere più la realtà dell’essere amato che la propria, gioire che l’altro sia e sia così come si fa conoscere da me. È quello che i giovani (e non solo) spesso riassumono nella formula “grazie di esistere”, dedicata alle persone che riempiono il loro bisogno di affetti. Ma attenzione: l’Altro contemplato da Francesco non è solo consolante risposta ai miei bisogni, rifugio caldo nelle tempeste della vita. Il Dio Uno e Trino e Altissimo è una potente calamita che attira tutto l’uomo Francesco a superarsi, a trasfigurarsi e lasciare ogni peso superfluo nella salita verso di Lui; non per niente le Lodi di Dio Altissimo sono state scritte sul monte della Verna.
Su questa vetta giunge a compimento l’itinerario di questo infaticabile cercatore di Dio, mercante sapiente che, dalle stoffe preziose del fondaco paterno, ha scelto poi di trafficare le «fragranti parole del Signore». La meditazione-ruminazione del vangelo porta Francesco a vedere ormai solo il Cristo e questi crocifisso, sul cui volto risplende la gloria del Padre. Dal Figlio quindi, dal suo modo di rivolgersi all’Altissimo e glorioso Dio con la confidenza di un bambino, Francesco apprende a rapportarsi in modo nuovo e impensato al Padre celeste e ne rimane folgorato per sempre.
Forse non ci rendiamo più conto della novità esplosiva che Gesù, oscuro rabbi di Nazareth, ha impresso indelebilmente al modo di pregare Dio. Prima di lui (e anche dopo di lui) nessuna tradizione religiosa ha osato tanto, tanta intimità e tanta confidenza verso il Creatore e Signore dei mondi. Con Gesù, il Dio trascendente, altissimo e onnipotente, giudice della storia e arbitro del destino finale dell’umanità diventa semplicemente “padre”, anzi “papà”, Abbà.

 L’era dell’incarnazione

Con questo vertiginoso avvicinamento dei due protagonisti del dialogo che chiamiamo preghiera, Dio e l’uomo, si entra in una nuova era della spiritualità, l’era marcata dal mistero dell’Incarnazione. Gesù è figlio del popolo ebraico, il popolo eletto, scelto dal Dio liberatore dall’Egitto che si faceva chiamare «Io sono». Il “Nome” santissimo di Dio, che conosciamo come il “tetragramma” YHWH, significa, tradotto più esattamente: “colui che è e che sarà”. Questo Nome, impronunciabile per l’ebreo orante, veniva pronunciato solo una volta all’anno dal sommo sacerdote nel sancta sanctorum del Tempio di Gerusalemme.
Anche l’altra grande religione monoteista, l’Islam, ha raccolto in una specie di rosario i 99 “bei Nomi di Dio”, che insistono sulle qualità della potenza e bontà di Dio e da cui è assente, rigorosamente, il nome di “padre”. Da notare che nel Corano, quando Dio parla in prima persona, lo fa sempre con un plurale maiestatis “Noi”, mentre nella prima Sura (preghiera islamica che equivale nell’uso al Padre nostro) l’orante umano si azzarda ad usare il “tu” per rivolgersi ad Allah. Così tutti i Salmi, espressione somma della preghiera ebraica, sono pieni di vocativi, anche molto accorati, se non proprio di “invettive” ardite verso Dio.
Ma lo ripetiamo, solo con Gesù di Nazareth, in modo che potremmo dire “scandaloso”, un uomo si prende così tanta confidenza da utilizzare un termine del lessico familiare per rivolgersi alla divinità. E qui entriamo nella novità che l’Incarnazione del Verbo ha introdotto nel mondo. Il Figlio unigenito ci “autorizza” a pregare SUO padre come fa lui, con le sue stesse parole umane, con il suo stesso cuore di figlio amato. Attenzione però, proprio questa approssimazione della preghiera all’esperienza umana della relazione padre-figlio può anche indurre una qualche ambiguità. Noi tutti abbiamo infatti un’esperienza di un padre umano, terreno, che può essere più o meno positiva.
Nel caso di Francesco d’Assisi, ad esempio, questa esperienza è stata piuttosto deludente e conflittuale. Ci viene raccontato dai suoi compagni che più volte Pietro di Bernardone malediceva il giovane figlio Francesco quando lo incontrava a fare la questua nelle strade di Assisi, cosa che costituiva per il ricco mercante una vergogna bruciante. Allora Francesco aveva trovato un anziano povero della città a cui chiedeva di benedirlo, ogni volta che il padre carnale lo malediceva. Ma molto più il Santo aveva rivolto il suo cuore filiale verso la relazione in cui trovava pienezza di senso: l’amore del Padre celeste, a cui con trasporto levava l’invocazione “Padre mio”!

 Fiducia e affidamento reciproco

Solo all’interno di questa relazione di completa fiducia-affidamento reciproco («io sono nel Padre e il Padre è in me» Gv 10,38) si può capire l’altra invocazione fondamentale del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà», che riprende l’atteggiamento di obbedienza fino in fondo di Gesù nella sua Passione. Quanti di noi direbbero la stessa cosa al proprio padre terreno? Infatti non sarebbe giusto, come non lo era per Francesco d’Assisi soddisfare le ambizioni paterne. Nel rapporto con Dio però, si tratta proprio di una volontà “altra”, di un Altro, che è certamente il nostro “papà”, ma che allo stesso tempo ci vuole spingere oltre noi stessi, fino a renderci capaci di unificare tutto il nostro essere per trasformarlo in dono totale.
È la proposta del vangelo, proposta dalla misura alta, totalizzante, che attrae e incute timore allo stesso tempo. Ma per chi ha compiuto il proprio esodo dalla sottomissione al proprio “corpo” (che nel linguaggio di san Francesco equivale all’io autoreferenziale) alla sottomissione al fratello, per amore di Dio, diventa chiaro che non c’è più conflitto tra volontà propria e volontà altrui, tra vocazione e realizzazione di sé; per chi, come Francesco d’Assisi, ha scoperto che «Tu sei» è la più bella affermazione del proprio esistere, come essere-in-relazione, si apre la gioia dell’incontro con il volto amato dell’Altro.