Il malato, maestro e sacramento

Uno stile di vicinanza cristiana con l’infermo, suggellato dall’incontro con il papa

 di Geremia Folli
frate cappuccino, fondatore del Volontariato Assistenza Infermi

 Si è svolto a Bologna, dall’8 al 10 maggio, il XIX Convegno nazionale di pastorale della salute a 25 anni dall’istituzione della «Giornata mondiale del malato» per volontà di Giovanni Paolo II. In quell’occasione, a padre Geremia Folli è stato chiesto di portare una testimonianza dei suoi tanti anni di servizio accanto agli ammalati e di sensibilizzazione delle comunità della diocesi a questa forma eminente di pastorale. Pubblichiamo la sua testimonianza riportata su www.settimananews.it/articoli-in-evidenza/malato-maestro-sacramento/

 Ringrazio il Signore per questo momento che la nostra Chiesa italiana dedica all’impegno «dell’aver cura» degli infermi e di quanti sono provati dalla sofferenza. E, questo, alla luce della eredità pastorale e magisteriale consegnataci dal nostro indimenticabile san Giovanni Paolo II. Ringrazio anche per l’opportunità offertami di poter esprimere a quel santo pontefice la particolare riconoscenza della nostra Chiesa di Bologna (e la mia personale) per quanto di sostegno è stato al nostro impegno diocesano verso gli infermi. In particolare, negli anni Ottanta, a quanto già si stava proponendo con l’esperienza del Volontariato Assistenza Infermi (VAI).

 Alcuni ricordi personali

Mi siano permessi alcuni riferimenti personali per meglio inquadrare la nostra esperienza di volontariato, anche nel suo «singolare incastro» col pensiero di san Giovanni Paolo II, e il prezioso conforto che da lui ne ricevette.
Nel 1957 fui ordinato sacerdote; ma sia per preparazione (avevo insegnato matematica) sia per naturale propensione, mai avrei previsto che mi sarei trovato in un ospedale a fare l’esperienza di cappellano (quasi contro la volontà dei miei superiori). Era semplicemente accaduto perché, visitando un amico di infanzia gravemente infermo (che si professava non credente!), ero rimasto molto sorpreso da alcune sue profonde considerazioni sulla finitezza umana, che mi condussero ad una più attenta rilettura del Vangelo.
Intendo quella rilettura, fino ad allora ignorata, dove l’ammalato è una figura centrale: segno e interlocutore privilegiato del Cristo. Quel Vangelo dove l’infermo è lì, in primo piano, pronto a dire: «Sì, Signore, io credo!», o del quale lo stesso Cristo sottolinea: «Tanta fede in Israele non ho trovato» (e pensare che lo diceva di un povero samaritano!). Ebbi in seguito altri significativi incontri, che mi convinsero ancora di più della necessità di leggere l’Evangelo con gli occhi dell’infermo e, quindi, a rimanere in ospedale come cappellano.
Devo subito aggiungere che il «servizio religioso» in cui ero approdato accusava un evidente e profondo disagio: proporsi a una realtà sociale, culturale e religiosa totalmente altra (inedita!), anche rispetto a un suo recente passato. Fu in tale contesto che, nel 1976, il cardinale Antonio Poma, arcivescovo di Bologna e allora presidente della CEI, mi chiese con insistenza di collaborare con lui nella «pastorale degli infermi» (allora si chiamava così). Anzi, volle istituire la figura del Delegato arcivescovile per gli ospedali e infermi, per sottolineare la sua fiducia nel compito affidatomi.

 L’incontro con Giovanni Paolo II

Perché questa scelta? Ero uno dei più giovani dei quasi, allora, 50 cappellani (35 di essi religiosi) presenti nei vari ospedali della diocesi; e, personalmente, non frequentavo la curia … anzi. Poma aveva forse letto (o saputo) di un mio articoletto dal titolo: «È necessario e urgente passare dal servizio religioso attuale a… tutta una comunità religiosa in servizio»? Passarono i primi tre anni in una crescente presa di coscienza della rilevante responsabilità per il compito assegnatomi. Come era più che prevedibile, alla scadenza del mandato ritenni responsabilmente di scrivere al cardinale pregandolo di affidare ad altri, più capaci e con maggiore disponibilità di tempo, questo impegnativo ufficio.
Fu allora che, un mattino, il cardinale mi telefonò dalla CEI, dove si trovava per lavoro, per convincermi a raggiungerlo il giorno seguente in Vaticano, presso la cappella privata del papa, per concelebrare col santo padre l’eucarestia. E così fu. Dopo la celebrazione, il santo padre si intrattenne con noi, e il cardinale Poma volle presentarmi a lui proprio quale suo Delegato per gli ospedali e infermi. Giovanni Paolo II mi fissò e senza alcun preambolo mi chiese che cosa facevo come delegato. Gli risposi, con tutta semplicità, richiamando alcuni punti che consideravo alla base del mio impegno (non erano altro che quelli del VAI, il volontariato che stavo già promuovendo). Quindi accennai che mi recavo sistematicamente nelle comunità parrocchiali (e non solo!) per aiutarle a interrogarsi sul dovere-bisogno di lasciarsi evangelizzare da un Vangelo che ponesse l’ammalato al centro del suo annuncio. E, di conseguenza, promuovesse il fratello infermo affinché fosse, nella comunità, insostituibile maestro di fede e di sapienza e perciò di vita.
E questo, in modo particolare, proprio dentro un contesto nel quale l’uomo si trovi tentato da un delirio di… quasi onnipotenza. Poi iniziando tale cammino (certo, per chi aveva il dono di essere una persona praticante) partendo sempre dalla eucarestia. Quella eucarestia che, mentre promuove e abilita alla comunione con il fratello infermo, offre anche di ritornare ad essa con una rilettura sempre più ricca di significato per la nostra fede.
Ricordo bene che conclusi il mio emozionato intervento accennando al fatto che sempre mi colpiva come il «ministero di guarigione» fosse stato il primo annuncio evangelico del Cristo e anche il primo a essere consegnato a noi. Un annuncio il cui linguaggio poteva essere inteso da tutti e quindi, pur se in vari modi, coinvolgere veramente tutti gli uomini di buona volontà… allargando a dismisura i confini potenziali delle nostre comunità di fede.
Fu allora che il santo padre, che mi aveva fin lì benevolmente ascoltato, mi abbracciò dicendomi: «Ricordalo bene… tu hai scelto la parte migliore: che non ti venga mai di lasciare questo impegno!». Dopo aver salutato gli altri ospiti, prima di uscire dalla stanza, ritornò e riabbracciandomi aggiunse: «Ho anch’io in pensiero di istituire un momento forte di richiamo, rivolto proprio a tutti, su quanto tu stai già cercando di fare».

 Uno stile di vicinanza cristiana

Tornai a Bologna con la determinazione a spendermi maggiormente, coi miei preziosi collaboratori, nell’impegno della cura agli infermi, trovando sempre il massimo sostegno nei vari pastori che si sono succeduti: da Poma, a Manfredini, a Biffi, a Caffarra fino all’attuale arcivescovo. Quando nel 1993, quindi molti anni dopo quell’incontro, rividi Giovanni Paolo II insieme al cardinale Biffi, mi curvai per baciargli la mano; ma lui prese la mia e fissandomi mi sussurrò: «Hai visto che ho mantenuto la parola?».
Ci sentimmo subito incoraggiati in quello che stavamo facendo nel nostro impegno. Ma ancor più cogliemmo in Giovanni Paolo II un chiaro indirizzo di quanto avremmo dovuto ancor più impegnarci. Certo, per noi fu relativamente facile riconoscerci in quanto poi il cardinale Angelini (fedele interprete ed esecutore del pensiero di Giovanni Paolo II) avrebbe scritto in quel prezioso Vademecum che accompagnava la pubblicazione della Lettera pontificia istitutiva della «Giornata mondiale del malato» (fascicolo intitolato: Giornata del malato, perché celebrarla, come celebrarla).
Era proprio quanto ci si proponeva con il VAI. Perché il nostro volontario si accosta al malato cercando di entrare nella sua ottica: non tanto come uno da assistere (con cose o prestazioni), ma come colui di cui ci si mette in ascolto. Accanto al malato ci si pone come presenza accogliente: promuovendolo a maestro. Allora egli può davvero divenire un sacramento, una luce, cuore pulsante della comunità cristiana; luogo privilegiato di conversione, in cui risalta la croce di Cristo.

 Coinvolgersi e coinvolgere

Anche se il VAI è chiaramente un impegno cristiano, che si propone con finalità e stile evangelico, esso non si presenta come «servizio religioso», comunemente inteso. Più semplicemente, vorrebbe offrire uno spazio concreto a quel: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» nel quale ogni buon samaritano di sempre possa sentirsi accolto e, quindi, operare.
È proprio per questo suo porsi discreto che il VAI ha permesso a tanti fratelli (che avremmo dovuto chiamare «lontani») di ritrovarsi valorizzati nelle loro potenzialità. E divenire, non di rado, doni preziosi per le loro comunità. Dunque, coinvolgersi e coinvolgere nell’attenzione e nell’ascolto del fratello in necessità rimane, in sintesi, il profilo evangelico del VAI.
Ecco, il “nostro” vorrebbe essere, come ebbe acutamente a sottolineare il cardinale Biffi: «Quel volontariato che non potrà mai essere inteso come ultimo anello o come supplenza dell’organizzazione sanitaria», quasi l’estremo tentativo per mitigarne le deficienze. Si tratta piuttosto di un segno di presenza della comunità cristiana, che apre la strada ad altre e più vaste «forme di collegamento tra la grande famiglia dei credenti e gli istituti operanti nel territorio».

Credo si possa concludere richiamando, anche per il VAI, quanto soleva dire (in analogo contesto) don Primo Mazzolari: «Voler essere, noi, un cammino di molti, ma “al passo dei più lenti”: degli “ultimi”».