LE DOMANDE DIETRO LE SBARRE 

Stavolta ci troviamo incastrati tra domande scomode e risposte difficili. Tra questi due scogli, come tra Scilla e Cariddi, incontriamo quelli che si chiedono “perché io qui?” e gli altri che dicono “e perché io no?”; quelli che “mi assumo tutta la responsabilità dei miei errori” e gli altri che, impertinenti, aggiungono solo “e cioè?”; incontriamo le studentesse disinibite, “senza donne come fate?” e i bambini evangelicamente ingenui, “papà, ma tu sei cattivo?”.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 

 Le risposte che non esistono

Certe domande imbarazzanti entrano nella coscienza col rischio di smarrirsi

 Perché io qui? Perché non io?

Festa della famiglia. Sezione per sezione, i detenuti possono incontrare i familiari in un’area verde, al riparo dei gazebo o sotto l’ombrellone che copre i tavolini da esterno. Le tante isole di solitudine diventano, per qualche ora, un arcipelago vitale. Non solo e non tanto per le piante che stanno esplodendo alla primavera.


Chi viene dalle celle avrebbe voluto portare qualche piatto preparato con la maestria acquisita nel tempo e condito d’affetto. Probabilmente anche le mogli avrebbero preferito impiattare qualche ricetta che portasse – da vicino o da lontano – i sapori di casa. Non è stato possibile. Ci si accontenta di uno spuntino “light”. I volontari girano per i tavoli offrendo sorsi di bevande. È l’occasione per sostare e presentarsi. Nelle conversazioni all’interno si parla spesso della famiglia, dell’apprensione per i figli; del bisogno che strugge di poter rivivere presto la vita di marito e di padre.
Giuliano è orgoglioso di presentarmi finalmente gli amori della sua vita. Lisa è una bimbetta spavalda. «Faccio la terza elementare», risponde alla mia domanda rompighiaccio. E saltando i convenevoli viene subito a una domanda imbarazzante: «Perché il mio papà è in carcere e invece il papà della mia amica Betta no? Lui è così antipatico, invece il mio babbo è tanto buono con me». Impossibile rispondere, anche soltanto con una frase fatta.
Non è l’antipatia che manda al chiuso (per fortuna?). Ma, si sa, i bambini hanno criteri di “giustizia” considerati “inadeguati” dal mondo degli adulti. Sarebbe tuttavia difficile argomentare con esempi l’“adeguatezza” dei criteri di giustizia “adulti”. Papa Francesco ha confessato in più occasioni, riferendosi alle persone detenute – e si sentiva non essere frase di circostanza – di essersi domandato: «Perché loro e non io?».
Un giorno un agente mi chiedeva perché spendessi il mio tempo con questi «che hanno fatto del male. Non sarebbe meglio facesse qualcosa per chi ha subìto i loro torti?». Mentre mi allontano senza avere risposto alla domanda provocatoria, il suo collega, che fa un tratto di strada con me, mi dice con accento spiccatamente “mediterraneo”: «Vedi, Marcello, io ho avuto la fortuna di trovare lavoro come agente, altrimenti scommetto sarei dall’altra parte delle sbarre».
Il deficit della giustizia umana è nulla in confronto all’ingiustizia della “sorte”. Mi trovo ricacciato nel silenzio davanti alle domande – di bimbo, di adulto, di innocente o colpevole – che hanno buon gioco a trovare ripetuti indizi dell’ingiustizia che continua spudorata a farla da padrona anche contro la miglior volontà. «Se potessi essere Dio anche solo per un giorno!» mi sento dire ogni tanto da uno dei mille mancati “commissari tecnici” della squadra di questo mondo. Non nego che la fregola ha preso a volte anche me.
Ma insieme agli “onori” dovrei accollarmi anche gli “oneri” di essere Dio. E dover resistere ogni giorno alle tentazioni del Satana che ha mille ragioni per ripetergli: «Ma non vedi cosa combinano quelli che tu continui a considerare tuoi figli? Non ti basta ancora la marea di ingiustizie che continua a montare? E tu ancora li tieni in vita? Perché non ammetti il tuo “peccato originale” e non cancelli la tua opera così bacata?».
Senza contare le mille ragioni che hanno i tanti Giobbe di questa terra per domandargli: «Perché io?». Capisco il suo silenzio.

Marcello Matté

 Me ne assumo tutta la responsabilità! Cioè?

Alla dichiarazione d’ufficio spesso carica di enfasi «me ne assumo tutta la responsabilità!», spesso è sufficiente rispondere con un semplice «cioè?», per vedere sgonfiarsi la petizione di principio e scolorirsi il volto di chi l’ha proclamata. Già, perché quel «cioè» indica che l’assunzione di responsabilità deve tradursi in un gesto concreto, pena il restare una semplice astrazione pressappochista, buona al massimo per l’autoassoluzione.
Naturalmente chi ha rotto il patto sociale con atti delittuosi contro persone o cose è chiamato a risponderne, non solo in solido, ma spesso anche attraverso una condanna penale e relativa detenzione della durata imposta dalla legge e che il giudicante ritiene più consona all’entità del reato. Ma, altrettanto spesso, il reato è frutto di percorsi di vita di lunga durata, di occasioni non colte o confusioni precipitate nelle esistenze creando instabilità e incapacità di giudizio.
Il nostro essere «animali sociali» ci immette nei circuiti delle relazioni affettive, economiche, politiche ed è impensabile sostenere che qualunque responsabilità possa gravare esclusivamente sul singolo individuo, quasi che questi viva una vita separata dal contesto. Le storie personali si intrecciano su molteplici registri e gli intrecci devono essere compresi se si vogliono realmente individuare e distribuire correttamente i «pesi».
La responsabilità soggettiva è così spinta molto al di là dell’individuo. Ma c’è anche una responsabilità di cui si fa carico anche chi ha solamente subito un evento. Probabilmente, sotto un certo profilo, è la condizione peggiore perché, in questo caso, alle domande che ci si pone, non esistono risposte sufficienti.
Purtroppo, il sistema della giustizia in Italia è ancorato ad una visione premoderna, prevedendo sostanzialmente che la pena del reo si concretizzi solo sotto l’aspetto dell’espiazione temporale. Con l’effetto di indurre il colpevole a credere che una volta chiuso il periodo detentivo, il suo debito con lo Stato sarà «pagato», dimenticando tutto ciò che il reato ha causato. Per questo non è sufficiente un percorso di riabilitazione e rieducazione, peraltro largamente carente quando non inesistente, ma occorrerebbe un serio lavoro di ricostruzione, ma più spesso di costruzione, di tutti quegli aspetti intellettuali, etici e perché no, spirituali, che consentirebbero al detenuto un confronto reale con la propria storia passata e un futuro possibile.
Tuttavia, resta il fatto che determinare le quote di responsabilità, dovrebbe essere un passo indispensabile per permettere di definire gli eventuali atti riparatori, pensandoli più nella forma contributiva che retributiva, per risolvere il «peso della colpa» che trascina tutti, dando una risposta meno aleatoria a quel «cioè» iniziale.

Sergio Ucciero

 Ma come fate senza le donne?

Nel mese di gennaio alcuni studenti del V anno del Liceo Minghetti di Bologna hanno avuto la possibilità di varcare i cancelli della casa circondariale “Dozza” di Bologna. Questo incontro ha permesso loro di avere un contatto, vero e concreto, con una realtà, di muri e persone, diversa da quella immaginata. 
Un’occasione dove io ed alcuni miei compagni abbiamo raccontato e risposto alle mille domande e curiosità degli studenti. Superato il primo momento di naturale e reciproco imbarazzo, comincia uno scambio di domande e risposte sulla giustizia riparativa. Un incontro durato un’ora, scandito da tante e profonde emozioni, come gioia, tristezza e risate. Eh già, avete capito bene: una risata è scappata proprio quando un ragazzo ha esclamato “Ma voi non siete cattivi!”. Vorrei tanto che la società non pensasse che dentro le mura ci siano dei “mostri”, ma persone che non hanno saputo chiedere aiuto nei momenti di sconforto e bisogno, oppure che hanno fatto scelte di vita sbagliate credendole le uniche possibili.
Nel momento dei saluti, una studentessa mi si avvicina e chiede, con un tono incuriosito “Ma come fate senza le donne?”. Una domanda che ha generato in me un profondo senso di imbarazzo e tristezza. Rimasi in silenzio per qualche minuti e pensai “Un altro boccone amaro da ingoiare”. Risposi facendo ruotare la mano con l’indice e il pollice a novanta gradi in un gesto che stava a significare “niente”. La ragazza, sbalordita e rattristata, se ne andò, proseguendo la sua visita. Mentre io me ne tornai in sezione triste e sconsolato: non avevo perso soltanto la libertà, ma anche la dignità di uomo.

Il Betto

 Papà, ma tu sei cattivo?

Quanto è faticoso ascoltare le domande che ci provengono dal nostro malessere, soprattutto quando queste sono scomode ed imbarazzanti: a volte sono necessarie e ineludibili; ci sono attimi, infatti, in cui non ci si può sottrarre. Le risposte allora devi cercarle… Siamo consci che potrebbero farci male, ma siamo altrettanto consapevoli che, una volta affrontate senza maschere, queste domande ci regaleranno un senso di liberazione e chiarezza.
Anche se faticose, ci aiutano a “svestirci”, a raschiare nel più profondo, in cui sono accantonati i sensi di colpa, la vergogna, le paure, i rimorsi e i perdoni non ancora elaborati: le domande imbarazzanti, e le risposte difficili che ne conseguono, hanno proprio lo scopo di aiutarci ad affrontarli.
Sto espiando una lunga pena in carcere e conosco bene questa sensazione di imbarazzo; le domande che mi spaventano di più sono quelle di mio figlio più piccolo! Domande inattese e dirette, che vanno dritte al punto, giù nel cuore, come ad esempio: “Papà, ma tu sei cattivo?”. Ognuno di noi vorrebbe apparire agli occhi del proprio figlio in una forma immacolata. In molte occasioni non è così… molti uomini e donne hanno scheletri piccoli, o anche veri e propri faraoni, nascosti nell’armadio.
Con franchezza rispondo a mio figlio: «Papà tuo non è cattivo, perché essere cattivo vuol dire essere malvagio e papà tuo non lo è. Papà ha sbagliato… non ha rispettato le regole, ha rubato… ma un ladro non è cattivo fintanto che non diventa malvagio con le altre persone, in quel caso è giusto dire che è cattivo». Quando sei dietro le sbarre le domande scomode sono parecchie, e parecchio difficili sono le risposte che devi fornire ai tuoi figli.
Poi devi rispondere anche all’educatore, allo psicologo, al criminologo e ai magistrati. Tutti ti pongono domande imbarazzanti, che impongono risposte difficili, ma lo scopo è quello di analizzare, e tentare così di rimuovere, quegli atteggiamenti e quelle condotte che ti hanno portato a sbagliare fino al fallimento personale, per illuminare le tenebre del tuo subconscio, per arrivare là dove solo quelle domande e quelle risposte possono farti arrivare.

Daniele Villa Ruscelloni