C’era una volta “Blowing in the wind”

Dove sono andate a finire le domande nella musica di oggi?

 di Walter Gatti
giornalista di musica e di multimedia

 Dar voce alla coscienza

Non si può dire che “le domande” non ci fossero prima di lui nelle canzoni, però con Bob Dylan (nel 2016 insignito del Premio Nobel per la Letteratura) le “domande scomode” sono diventate una presenza fissa, una costante.

I tanti interrogativi di Blowing in the wind («Quanti anni possono resistere gli uomini, / prima che sia consentito loro di essere liberi? / Per quante volte un uomo potrà distogliere lo sguardo, / e fingere di non vedere? / La risposta, amico mio, soffia nel vento, / Quante volte un uomo dovrà guardare in alto, / prima che possa vedere il cielo? / E quante orecchie deve avere un uomo, / prima di poter sentire gli altri che piangono? / E quante morti ci vorranno prima che l’uomo possa ammettere, / che troppi sono morti? / La risposta, amico mio, soffia nel vento, / la risposta soffia nel vento») sono capostipiti di tutto quello che nei decenni successivi la canzone leggera e rock ha saputo dire e dare come interrogativo, come provocazione, come perplessità, come incertezza.
Dar voce a interrogativi che esprimevano una coscienza, questo è forse stato il punto chiave della proposta musicale di Dylan e dei tempi d’oro della canzone sociale. Con lui le domande sono state espresse perché si è reso evidente che anche in musica si poteva comunicare una certa coscienza. Magari una coscienza interdetta, allibita di fronte all’andamento della realtà sociale e planetaria, domande che non necessariamente erano versetti con un punto interrogativo finale, ma che iniziavano ad essere espressione di un disagio esistenziale, di un vuoto, di un’assenza totale (si pensi all’incredibile affresco di One too many mornings: «Dall’incrocio davanti alla mia porta, / lo sguardo lentamente si sfoca, / e io volgo ancora il capo, / verso la stanza dove ho dormito con il mio amore, / poi di nuovo fisso la strada, / e il marciapiede e il cartello, / mentre un altro giorno è passato, / e ho ancora mille miglia da fare»).
Con l’evolversi del rock nelle sue mille forme, con il suo ergersi a massimo canale comunicativo della cultura giovanile (non sempre alternativa), le canzoni sono diventate la massima espressione delle domande che circolano (o circolavano) nell’aria.

 Gli enigmi dell’interiorità

Ma, si sa, le domande più scomode non sempre sono quelle sociali. Anzi: molto spesso gli interrogativi più importanti sono quelli che colpiscono il cuore dell’uomo o che da quel luogo provengono, come dimostra il Leopardi di «ed io, che sono...?». Domande che spesso partono dal tema dell’amore, l’infinita gioia e l’eterno enigma della nostra esistenza. Così l’incredibile Why di Annie Lennox ha portato al massimo livello di faccia-a-faccia le domande sulle disillusioni dell’amore («Quante volte devo provare a dirti / che mi dispiace per le cose che ho fatto, / ma quando inizio a provare a dirtelo, / ecco che tu devi dirmi / ehi questo tipo di problema è appena iniziato, / dico a me stessa così tante volte / ma perché non impari a tenere la tua boccaccia chiusa? / e per questo che fa così male sentire le parole / che continuano a caderti dalla bocca, / Dimmi / perché, perché?»), mentre in Italia è stato ad esempio Francesco Guccini con la Canzone delle domande consuete a fotografare con un’intima malinconia il tempo dell’amore che sfiorisce, dell’amore che non unisce più, ma che lascia solo dubbi e lontananza («Rimanere così, annaspare nel niente, / custodire i ricordi, carezzare le età; / è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente / del diritto alla felicità… / Se ci sei, cosa sei? Cosa pensi e perché? / Non lo so, non lo sai; siamo qui o lontani? / Non andare… vai… / Non restare… stai… / Non parlare… parlami di te… (…) Pronto a dire “buongiorno”, a rispondere “bene”, / a sorridere a “salve”, dire anch’io “come va?” / Non c’è vento stasera. Siamo o non siamo assieme? / Fuori c’è ancora una città?»).
L’amore pone domande, ma è l’uomo a farsi percuotere (o a rimanere insensibile) dalle stesse. E di domanda in domanda (il tempo, la società, i rapporti, il potere, l’amore, la giustizia) si finisce a scontrarsi con le domande sul senso, sul significato, sulla verità, sul tutto. Grandissime canzoni ruotano attorno a interrogativi importanti, da sempre. Le hanno scritte in tanti, dagli U2 (I still havent found what i looking for) ai Beatles (The long and winding road), da Springsteen (The river) a Paul Simon (The sound of silence).
Vasco Rossi si chiedeva in una sua celebre canzone «liberi liberi siamo noi, / però liberi da che cosa?». E Franco Battiato, trasformando una domanda in una ricerca, ci suggeriva che siamo tutti in cerca di un «centro di gravità permanente». Ed ancora Lucio Dalla sulla domanda che conta aveva scritto una delle sue canzoni più belle, Cosa sarà: «Oh cosa sarà / che dobbiamo cercare, / che dobbiamo cercare». All’inizio degli anni Novanta, nel suo momento di maggior successo, Riccardo Fogli (già cantante dei Pooh) aveva inciso una ballata-pop di grande impatto spirituale, Io ti prego di ascoltare. Erano domande implicite e dirette, le sue, dette ad un “Tu” con la “T” maiuscola: «Io ti prego di ascoltare, / non andare via, / io continuo a dubitare, / non so più qual è la strada mia, / che cosa è bene e cosa è male? / quasi non so più, / tanto sembra tutto uguale in questo mondo, / se non ci sei tu».
Le domande diventano preghiere ed a volte portano con sé un bagaglio enorme di questioni, anche quando sono proposte in un formato scanzonato e rockettaro, come ha fatto il Ligabue di Hai un momento Dio, ballata che, su un ritmo incalzante, propone al Padreterno dubbi epocali in formato emiliano: «Ho tre domande per Te: / chi prende l’Inter, dove mi porti, e poi di’, soprattutto, perché? / perché ci dovrà essere un motivo, no? (…) Hai un momento Dio? / No, perché sono qua, insomma ci sarei anch’io. (…) Almeno di’ se il viaggio è unico e se c’è il sole di là. / Perché nemmeno una risposta ai miei perché?».

 Ma poi…

E se la risposta sembra non giungere, forse ci si può stancare di chiedere? Negli anni Sessanta, nell’epoca bella e coraggiosa del rock e delle rivoluzioni giovanili, le domande (belle o brutte, giuste o sbagliate) erano al cuore della musica. Mezzo secolo dopo, pochissime domande viaggiano ancora nell’etere, annullate in un’epoca di superficialità sentimentale e di look sgargianti. Forse che ormai la domanda è ritenuta inutile, visto che nessuno dall’altra parte si preoccupa di risponderci? Oppure ė il nostro tempo che non ha più interesse per le domande importanti, quelle che feriscono e non ti lasciano in pace? Quelle che non possono essere risolte da un messaggio su Whatsapp o da una faccina in calce a un post su Facebook?

 Dell’Autore segnaliamo:

Help! Il grido del rock
Itaca, Castel Bolognese 2012, 3 voll., pp. 848 

e l’album:

Southland
IRD, 2016