Il mistero di essere piede dello zoppo

Essere consorte degli ultimi è abitare le domande senza risposta della vita

 di Maria Chiara Sagario
della Piccola Famiglia dell’Assunta di Montetauro

 La domanda che scava dentro

Quando ho iniziato il mio servizio ai poveri, ho imparato a vedere nella loro stessa condizione la persona di Gesù che mi chiedeva se volevo servirlo in quei poveri. Ho risposto di sì senza fare troppi calcoli, perché tutto mi sembrava semplice e puro.

Essere “occhio per il cieco, piede per lo zoppo” è una profezia di Isaia che trova risposta nel Cristo Buon Samaritano che è venuto per mettersi accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito. Ma la visione di Isaia è contemporaneamente un interrogativo (“chi manderemo?”) che dovrebbe sfociare per tutti noi in una risposta molto bella: “Signore, manda me”.
Ho iniziato facendo volontariato, e sfido tutti a provare a vivere una giornata intera nel servizio senza farsi a sera questa domanda: ho potuto dedicare un giorno intero agli altri senza concedermi nulla, ma potrei farlo per tutta la vita dato che per un giorno ce l’ho fatta? Ho tenuto questa domanda dentro il cuore per un po’ di tempo e questa, come una goccia, ha scavato: la risposta teoricamente è molto facile darla, ma in concreto richiede di dare una forte sferzata alla propria vita.
A questo punto sono entrata in una comunità, la Piccola Famiglia dell’Assunta chiamata anche di Montetauro, dove bussano per essere accolti tanti “generi” di poveri. La povertà infatti oggi aggrega, come sempre, tra loro chi la vive. Ci sono comunità di barboni, comunità di immigrati, di balordi e chi ha una qualunque disabilità cerca subito di mettersi insieme ad altri messi come lui. È il senso che si trova nella parola “con-sorte”. A Montetauro si vuol essere sempre non solo accanto ad altri poveri, ma si vuole assumere totalmente la loro sorte.

 
Diventare consorte

C’è un testo bellissimo di Giuseppe Dossetti che è stato il formatore di don Lanfranco che ha iniziato la nostra comunità: «Il lavoro non è che una frazione della nostra convivenza, che vuol essere sempre assunzione totale di una sorte; ed è in essa che si compie la nostra adorazione. Se il lavoro è incluso in essa, è la convivenza che detta il perché e il come del nostro lavoro: per questo il nostro lavoro veramente non ha fine. Il perché e il modo è definito dal fatto che noi vogliamo adorare il Signore nei minimi, anzi coi minimi e da minimi: essendo con loro e in loro, chiedendo al Signore di diventare sempre più “loro”, perché il dono del Signore dato a loro, che è la nostra Famiglia stessa, sia consumato in una trasformazione di noi in essi, in tutto quanto vi è in essi da assumere, tranne l’atto del peccato. Il Signore ci possa sempre trovare nella loro schiera. Certo ci ha amati fin dall’inizio come una famiglia di “loro”: mai il suo sguardo d’amore è più completo, la sua compiacenza di noi è più completa che quando ci trova, in spirito ancor più che materialmente, immersi tra loro, in questa moltitudine di quei piccoli, disprezzati, oppressi, offesi, “divorati” in cui si è trovato a vivere realmente egli stesso».
Ho risposto subito sì alla richiesta di MC di dire qualcosa sull’“abitare le domande aperte” anzitutto perché “domande aperte” è un’accezione della parola mistero. Il mistero visto dal punto di vista cristiano non è una definizione dogmatica; l’uomo stesso è un mistero e più che mai l’uomo povero, piccolo, oppresso è un mistero aperto, che si propone a noi in modo inquietante, che ci pone domande fastidiose per la nostra quiete. Si tratta allora di mettersi in un atteggiamento di accoglienza e di abbandono che non sfoci in nessun modo nell’assistenzialismo, ma che sempre più porti a dimorare nella stessa condizione, ad abitare con, arrivando fino ad abitare in, condividendo la stessa sorte. E questo avviene in modo lento ma progressivo e se non accadesse sarebbe il naufragio dell’amore. Io spero tanto che non si chiuda mai la porta del mistero di queste esistenze, di questi uomini coi quali condivido interamente tutte le ore, tutti gli anni e spero tutta la vita.

 La luce che illumina ogni cosa

Vorrei esprimere un’altra dimensione di quello che MC chiede, partendo sempre da un dato concretissimo che il “consorzio” coi poveri rende particolarmente esaltante e concreto: quando si ama un povero - e di questo ci siamo accorti fin dall’inizio -, la prima porta che si apre è quella della fedeltà. È scritto: “l’amore è fedele”; ma questo, prima di trovarlo scritto sulla Bibbia, l’ho trovato scritto sul volto dei nostri poveri. La domanda è: «Ma tu con me, fino a quando?». Don Lanfranco è stato un po’ di tempo a servire in una casa-famiglia di don Oreste e ha assistito personalmente un disabile che don Oreste amava molto e si chiamava Silvio Marti, il quale aveva continuamente sulle labbra una parola che divenne poi il titolo del giornale della “Papa Giovanni”: «SEMPRE». Silvio aveva trovato, dopo tanto soffrire, un amore, però si voleva rassicurare che questo fosse per sempre. La carità delle cene di beneficenza una o due volte all’anno è un’offesa alla dignità di questa parola, anche se a volte si fanno perché poi tutto fa brodo, appunto come le cene.
Ho riportato la domanda di MC anche a don Mauro, affetto da SLA, che da dieci anni vive con noi. E lui risponde così: «Io sono portatore di tracheotomia con ventilazione meccanica e di sondino gastrico. La mia patologia mi rende completamente non autosufficiente. Il punto della questione non è la dipendenza dalle macchine: più che dagli strumenti si dipende dalle persone che si prendono cura di noi. Qui sta la differenza tra un tipo di presenza e l’altro. È chiaro che non essere autonomi è una limitazione, ma chi sta vicino può colmare la mancanza di tante cose. Ho bisogno di qualcuno che porti la croce con me, che si faccia carico di me. Questi anni in comunità per me sono stati molto importanti, un’esperienza ricchissima, che vorrei potesse servire anche ad altri. Se non avessi accettato questo percorso, mi sarei perso davvero tanto. Il dottor Melazzini, malato come me, parla di “inguaribile voglia di vivere”. Sì, la vita è un valore troppo grande… Questo dico senza togliere a nessuno la libertà di decidere anche diversamente in situazioni analoghe, ma nel mio caso sono sempre più convinto che valeva la pena di continuare a vivere: per me anche la malattia ha un senso. Il problema è non perderlo di vista, altrimenti nei momenti più brutti si rischia la disperazione. La lotta principale è proprio quella di non perdere questa luce».

 Per conoscere meglio la realtà
di Montetauro
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