Oltre la sindrome del nevrotico

Porsi domande espone a legittimi dubbi le nostre false sicurezze 

di Piero Cavaleri
psicologo

  l mistero della psiche

Il pensiero degli antichi greci, in particolare attraverso la saggezza di Socrate, ci ha insegnato da tempo come l’arte di fare domande sia l’arte stessa del pensare, dell’educare, del fare politica, insomma del vivere.

E come quest’arte, per essere compiutamente espletata, abbia in ogni momento bisogno di tanta forza intellettuale, di tanta dignità, di tanta coerenza, fino al punto da mettere sempre in gioco le proprie rassicuranti certezze, le proprie comode verità e, in casi estremi, la propria vita. L’arte di fare domande e la necessaria dose di coraggio che essa implica non sono temi estranei alla riflessione psicologica. Di coraggiose domande e di coraggiose risposte è intessuta la trama di ogni percorso psicoterapeutico. Di interrogativi inquietanti e di paure insondabili è intriso il mistero della psiche di ogni essere umano. È noto come Freud ritenesse la pulsione sessuale una decisiva chiave di lettura della psiche umana. Altri autorevoli psicologi, in tempi successivi, non hanno condiviso il suo pensiero e si sono orientati in una direzione diversa.
Pur se con sfumature ed accenti differenti, in molti oggi danno un rilievo particolare al bisogno di sicurezza, al bisogno di contenimento affettivo, quali elementi fondamentali per comprendere la psiche umana fin dal suo primordiale originarsi, spostando così l’attenzione da una prospettiva puramente pulsionale ad una più marcatamente relazionale. Detto in altri termini, se vogliamo capire come si origina e come si organizza la psiche di un essere umano, non dobbiamo principalmente porre attenzione alla “natura che ci abita” e che si nasconde nei meandri oscuri dell’inconscio, quanto piuttosto alla “qualità” delle nostre relazioni originarie, all’originario contesto relazionale che ha risposto alle nostre paure infantili, al nostro bisogno di essere stabilmente rassicurati, al desiderio profondo di essere “riconosciuti” nei tratti più spontanei e autentici della nostra identità.
Il bisogno di sicurezza, dunque, è forse il “filo rosso” che può aiutarci a capire anche perché ci vuole coraggio, molto coraggio, per fare domande sia agli altri, ma soprattutto a noi stessi. Perché abbiamo così tanta paura di fare e di farci domande? Perché così spesso preferiamo nasconderci dietro ad un dito, negando evidenze tangibili che ci stanno sotto gli occhi? Perché preferiamo non vedere e voltarci dall’altra parte? Perché troviamo più comodo non dare corso a certi legittimi dubbi, a certe oneste curiosità, a certa voglia di trasparenza, piuttosto che scoperchiare vasi profondi dal pericoloso contenuto? Perché, a volte, sperimentiamo così tanta paura se si tratta di rompere con vecchi luoghi comuni, con radicate quanto superficiali generalizzazioni, con rigidi stereotipi logorati dal tempo?
Rompere con gli abituali schemi di pensiero, attraverso una ardita “dissonanza cognitiva”, rompere con consolidati atteggiamenti di prudente reticenza, di falso “rispetto umano”, costituisce una attitudine molto ardua da praticarsi, molto difficile da perseguire con costanza e coerenza. Il nostro ancestrale “bisogno di sicurezza” è in molti casi la chiave di lettura per venire a capo di tutta questa complessa ed ininterrotta teoria di contraddizioni che ci avvolge. Fin dalla nascita sperimentiamo quanto sia precaria la nostra vita, quanto inaffidabile sia l’ambiente che ci circonda, quanto fragili siano le relazioni che ci supportano e quanta cocente delusione fa spesso seguito alle nostre facili aspettative.

Le inossidabili certezze

Per fare argine a tutta questa insidiosa negatività, che incombe su di noi limitandoci, per contenere una così evidente ed inevitabile instabilità, che emotivamente ci stressa e ci logora non poco, ben presto adottiamo un meccanismo adattivo semplice, che ci permette di sopravvivere e di andare avanti. Impariamo a crearci delle inossidabili “certezze” e ad esse ci aggrappiamo ad oltranza, senza mai metterle in discussione. Questa elementare strategia ci permette, anche se in modo illusorio, di percepire il mondo in cui viviamo come un ambiente estremamente sicuro, perfettamente controllabile, costantemente prevedibile. In questo modo, giorno dopo giorno, quasi per un incanto, per una magia, ogni cosa diventa coerente con le altre, viene vissuta come scontata, implicita, familiare e, dunque, rassicurante. Col tempo tesaurizziamo tante e solide “certezze”. Porle in discussione, metterle in dubbio, farci delle domande radicali e scomode a loro riguardo avrebbe il sapore fallimentare di una operazione autodistruttiva. È per questo motivo che impariamo a diventare reticenti verso noi stessi, apprendendo l’arte sottile di essere con noi stessi ambigui, imprecisi, fino a divenire del tutto insinceri.
Sottrarci all’insopportabile, logorante stress di dialogare con noi stessi è un obiettivo non da poco, che tuttavia implica la penosa e costante pratica della manipolazione di se stessi, di una percezione alterata degli altri e della realtà circostante. Ignari di quanto sia devastante un simile “gioco” e allo scopo di vivere più sicuri, ci barrichiamo dietro certezze inesistenti, delle quali diveniamo miopi prigionieri, inadatti a vivere e a cogliere le sfide della vita, incapaci di essere artefici di autentico cambiamento e di vitale creatività. La chiusura ad una realtà dissonante, rispetto alle proprie aspettative, la mancata esposizione alle possibili ferite prodotte dall’ammissione di un proprio fallimento, di un proprio umano limite, la rigida attitudine al controllo, l’incapacità di trasformare gli ostacoli in opportunità creative, sono tutti elementi che non solo neutralizzano il coraggio di fare e di farsi domande, ma costituiscono i tratti essenziali di una persona con un profilo marcatamente nevrotico.

 La sana follia dell’artista

Otto Rank paragonava il nevrotico ad un “artista mancato”. Per essere artisti occorre “tradire” la propria ispirazione originaria, è necessario esporsi alla ferita del fallimento, affrontare il possibile insuccesso, non soccombere di fronte alle molteplici limitazioni che deturpano l’iniziale intuizione. Il nevrotico, non volendo rinunciare al controllo della realtà, non volendo esporsi al limite che incombe sulla natura umana, si priva di ogni potenziale energia creativa, rinuncia a vivere, a “creare la propria vita”. È a motivo di ciò, forse, che per fare domande occorre avere l’estrosa libertà e la sana follia di un artista.

 Segnaliamo il volume:

 

MOLINARI-P.A.CAVALERI
Il dono nel tempo della crisi. Per una psicologia del riconoscimento
Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 158