Presentiamo qui la prima parte del provocante intervento di mons. Paolo Bizzeti SJ, Vicario apostolico di Anatolia, sul “Vangelo della testimonianza e del dialogo”, tenuto all’assemblea-convegno provinciale “Quale vangelo dalle nostre missioni?” nell’ottobre scorso e un breve resoconto dell’incontro imolese con mons. Antonio Mattiazzo, vescovo emerito di Padova, che dopo oltre venticinque anni di servizio episcopale, è partito missionario con i cappuccini in Etiopia.

Saverio Orselli

 Con l’annuncio del kerygma nel cuore

Intervento di mons. Paolo Bizzeti SJ, Vicario apostolico dell’Anatolia

Andare, predicare, battezzare

Le parole del vangelo di Matteo (28,19-20) «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» penso che abbiano segnato pesantemente la concezione di missione che è rimasta intatta per oltre un millennio.

Proprio queste parole tuttavia, spesso isolate dal contesto e interpretate in modo riduttivo, hanno causato non pochi problemi. Come spesso è successo ad altri celebri versetti dei vangeli, sono diventate uno slogan semplicistico: andare, predicare, battezzare. Punto.
Oggi, grazie alla crisi delle missioni tradizionali in paesi come la Turchia, siamo invitati a comprendere e meditare in modo nuovo e più ampio questi capitoli di Matteo, sullo sfondo di tutto il Nuovo Testamento, messi in parallelo con i brani di altri evangelisti e degli Atti degli Apostoli. Anzi direi che è proprio la grande meditazione di Luca negli Atti il punto prospettico da cui comprendere i due citati versetti di Matteo. Mi fermo allora brevemente sui primi tre verbi: andare, ammaestrare, battezzare.
Il primo è chiaro, non c’è dubbio; eppure le parole che di continuo ci rivolge papa Francesco mostrano che non è per nulla scontato. Egli insiste sulla necessità di uscire dalle chiese, di non chiuderci nelle nostre liturgie, di andare dove sono gli uomini, con le loro gioie e i loro drammi.
Andare è il primo ovvio senso della missione, che comporta il partire per una terra straniera come la Turchia: eppure oggi sono pochi coloro che hanno desiderio di andare «nella terra santa della Chiesa», come amava chiamarla il vostro compianto padre Luigi Padovese. Tante le cause, più o meno plausibili: la più diffusa è che anche nei nostri paesi c’è tanto bisogno perché sono ormai pagani. Vero. Ma in Italia 50 milioni di pagani hanno a disposizione decine di migliaia di preti, frati, monaci, suore, diaconi. In Turchia i pagani di fatto sono qualche decina di milioni e hanno a disposizione poche decine di preti e suore. Dunque?

Le paure che ci frenano

Alcune cause poi sono decisamente meschine, come quella di perdere la vita, quando sappiamo benissimo che domattina per una qualunque stupida causa possiamo morire. C’è anche la paura e la fatica di affrontare un contesto difficile - so di cosa si parla perché per me cominciare a vivere a 70 anni in Turchia è pesante! - ma allora domandiamoci: chi non è disposto a uscire dalla propria terra come il padre nella fede Abramo, come farà a seguire un Gesù che cammina continuamente, che non ha «dove posare il capo»? Un altro motivo della diminuzione del numero dei missionari in queste difficili terre è dovuto al fatto che i padri provinciali sono spesso più preoccupati di mantenere le opere italiane che non quelle all’estero. Così succede anche nel mio ordine. È uno sbaglio: oggi bisogna pensare la missione come un interscambio fruttuoso tra due territori.
Ammaestrare è il secondo verbo: lo abbiamo declinato quasi esclusivamente nel senso di fare catechismo o insegnare la dottrina cristiana ai catecumeni. Ma basta? Un paese come la Turchia interpella la Chiesa intera: come informi? Come dai ragione della tua speranza? Come racconti la bella storia di Dio con gli uomini? Quali canali attivi per aiutare la gente ad avere una comprensione corretta del cristianesimo? Facile lamentarsi che i musulmani sono ignoranti e ripetono presentazioni parziali o errate dei vangeli e della Chiesa: ma chi offre informazioni corrette? Oggi la fonte di apprendimento numero uno è il mondo di internet, ci piaccia o no: come presentiamo in questo mondo virtuale la fede cristiana in un modo comprensibile per i giovani di oggi?>
La situazione in Turchia è profetica di quello che avverrà in Europa e in Italia nel giro di pochi anni, per non dire che ci siamo già. In Italia siamo infatti passati dalla ostilità all’indifferenza e all’ignoranza: non si sanno nemmeno più “leggere” le grandi opere d’arte perché non si conosce il testo biblico. Terrificante ma reale. Ammaestrare è un verbo che va dunque declinato in molti modi: prima di giudicare i musulmani, chiediamoci cosa facciamo perché conoscano meglio il cristianesimo.
Battezzare è il terzo verbo: significa immergersi. I giovani si immergono nelle feste, nelle danze, nel gioco, in un gruppo avvincente, anche esigente purché affascinante. Così tutti, in realtà. Ma come posso scegliere di entrare in una comunità di persone se non le conosco, se conoscendole non mi attirano, anzi mi fanno paura? Nessuno desidera buttarsi dentro una comunità di onniscienti che mettono in risalto la tua ignoranza, nessuno si butta dentro un gruppo di giudici che ti giudicano senza possibilità di scampo! Un giovane, ma anche un adulto e ancor più un anziano, entrano volentieri in un gruppo simpatico, rispettoso, gioioso, tollerante. Nessun frate o suora va volentieri in una comunità fredda, che guarda dall’alto in basso, pronta a condannare o assolvere, che ti schiaccia con la sua mole.
Abbiamo bisogno di tenerezza, di accoglienza, di respirare fiducia, di essere attratti, di trovare qualcosa di bello, di buono, di festoso, di paziente. Ebbene, come potrà una persona tuffarsi o farsi introdurre nel Padre, nel Figlio, nello Spirito santo, se non appaiono ai suoi occhi belli, affascinanti, buoni, rispettosi? Allora domandiamoci, proprio incalzati dai musulmani: non sarà che noi alla fine presentiamo un Dio molto simile al loro? Un Dio che scruta, che chiede, che prende, che giudica, che condanna? Proprio il vivere tra la gente di un’altra religione ci costringe a chiederci: ma noi, in che Dio crediamo? Vogliamo ripetere a pappagallo che siamo tutti figli di Abramo, che siamo le tre religioni monoteiste, che crediamo nello stesso dio?

 Recuperare la capacità d’ascolto

Gesù è stato un meraviglioso narratore del Padre, della sua capacità di far festa per lo sciagurato, della sua umiltà nell’andare a cercare e dare spiegazioni a chi crede di essere migliore, nell’avvicinare il perduto e così via. Le nostre missioni languono perché il Dio che abbiamo in mente è il dio del teismo seicentesco, non il Dio della Bibbia, il Dio capace di abbattere i muri di separazione, di farsi vicino ai lontani, di amarti proprio quando viene fuori il peggio di te. Gesù ha consegnato la sua preziosa vita nelle mani di Giuda e di Pietro e degli altri non quando facevano i bravi bambini, ma quando lo tradivano!
Come raccontiamo la vita trinitaria? Come narriamo, per così dire, “le loro giornate”, i loro desideri, le loro preoccupazioni, i loro sogni? Immergere nel Padre, Figlio, Spirito non è una formuletta da recitare: è una complessa operazione che richiede tappe, modalità flessibili, discernimento, creatività soprattutto.
Giustamente alcuni missionari dicono che diversi nostri cristiani in Turchia chiamano con altro nome lo stesso dio che seguono i musulmani e che l’osservanza della legge è più importante della scoperta della gratuità divina, della grazia che salva. Una gratuità cui affidarsi, cui dar fiducia ma in risposta all’annuncio dello strepitoso amore di Uno che ama da morire perfino i suoi nemici. La crisi della missione è in realtà la cartina di tornasole della nostra ignoranza esistenziale a proposito di nostro Signore. Molti dei missionari che ho conosciuto in varie parti del mondo non si commuovono da anni per la misericordia di Dio: come avranno fatto a proporre il Giubileo della misericordia in modo avvincente?
La nostra sterilità missionaria è dovuta al non avere più nel cuore l’annuncio del kerygma, del mistero pasquale, di quella logica per cui è possibile tirare fuori la luce dalle tenebre, la vita dalla morte, il perdono e la comunione dalle cattiverie che escono dal cuore umano, la vittoria dalla sconfitta, un popolo da gente divisa e rissosa, come erano gli apostoli (Mc 9,33-34). Noi diamo tutto per scontato, crediamo di avere tutto già chiaro. Abbiamo dimenticato l’ascolto, non siamo più stupiti!
Preoccupati di obbedire alla missione che Gesù ci ha affidato, prima l’abbiamo ridimensionata, poi abbiamo perso l’ascolto, non solo della Parola di Dio, ma anche delle persone che abbiamo davanti. Già! Perché questo è l’altro punto capitale: la Buona Notizia non è un sistema teologico valido per ogni tempo, luogo, persona. È una Parola incarnata che si rivolge a persone in carne e ossa, appartenenti a una geografia, a una storia, a una cultura, quasi sempre a una religione. L’incontro con l’altro non è l’incontro con un recipiente vuoto che io missionario devo riempire, chiedendo all’altro di svuotarsi di tutta la sua vita precedente. Anzitutto il missionario deve, con discrezione, conoscere chi gli sta di fronte: storia familiare, storia personale, studi, hobby, ferite accumulatesi, intuizioni e desideri coltivati in segreto, amori, paure. Si tratta di un lungo, paziente e assai discreto farsi compagno di viaggio, come fa Gesù con i due di Emmaus, dai quali tira fuori la loro storia e le loro delusioni. Gesù non si mostra con una apparizione sfolgorante, ma con grande umiltà, pronto anche a uscire di scena: l’incontro col Risorto è una storia costruita insieme.
Rimango esterrefatto quando mi accorgo che il parroco non conosce quasi nulla delle singole pecore del suo gregge, che pure è piccolo. Gesù aveva poche persone intorno anche perché non voleva rapporti massificati: conosceva le sue pecore una ad una ed esse conoscevano Lui da vicino, lo vedevano mangiare, dormire, fare il bagno nel lago, pregare. Le nostre parrocchie o conventi sono spesso dei bunker, dei fortini dentro cui si vive una vita che nessuno vede: come è possibile dare testimonianza se la nostra vita è nascosta nella privacy?
Papa Francesco ci ricorda che bisogna «imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità. Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo che realmente ci risana è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono» (EG 91-92).

 Mons. Antonio Mattiazzo è un giovane di settantasette anni che nelle sue tante vite ha prima girato per le nunziature del mondo - Nicaragua, Honduras, Stati Uniti, Brasile, Francia, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Niger… - e poi guidato una Chiesa importante come quella di Padova per oltre venticinque anni. Un giovane dalla carica contagiosa e straripante, che in anticipo rispetto al compimento del 75° compleanno - limite di età per i vescovi nella responsabilità di Chiese locali - ha chiesto di essere sostituito alla guida della grande diocesi veneta, per partire missionario in Africa.
L’incontro con padre Antonio, come gli piace essere chiamato, ospite della fraternità dei cappuccini di Imola il 23 febbraio, è stato particolarmente emozionante, anche perché ha permesso ai partecipanti di scoprire una persona davvero speciale. Abituati come siamo a pensare il tempo della pensione come il giusto riposo dopo una vita spesa nel lavoro, ascoltare i racconti di padre Antonio è stato un bel richiamo e un invito alla responsabilità. Partito pochi mesi dopo aver raggiunto l’età della “pensione” per la poverissima prefettura apostolica di Robe, in Etiopia - una missione affidata ai cappuccini delle Marche - ha cominciato a girare in lungo e in largo quel territorio dove i cattolici sono un gregge piccolo piccolo mentre enorme è il numero di chilometri quadrati su cui sono dispersi, pari quasi a un terzo dell’Italia. Il problema non sono solo le distanze, ma anche e soprattutto la lingua; così, appena arrivato, ha iniziato uno studio intenso, perché l’urgenza di poter dialogare era pressante, al punto che in pochi mesi padre Antonio ha iniziato a celebrare l’Eucaristia e a predicare nella lingua locale. «L’importante è mettersi al servizio della nuova comunità, dimenticando da dove si è venuti e attraverso quali strade vi si è arrivati», ha detto padre Antonio, ricordando che il missionario parte per mettersi a disposizione di una nuova famiglia a cui non può offrirsi solo a metà.
L’entusiasmo del vescovo missionario Antonio Mattiazzo ha fatto sì che volassero via quasi due ore di racconti, domande, risposte, fino a concludersi nella preghiera, chiesta a gran voce dai presenti: la recita dell’Ave Maria in lingua oromo, per sentirsi uniti nella fede alle sorelle e ai fratelli dell’Etiopia, che hanno trovato da qualche anno un meraviglioso compagno di viaggio.