Abitare la fragilità

Il corpo è vulnerabile e ha bisogno del balsamo degli altri 

di Donatella Galeotti
medico

 

«Alla sera della vita risplende la bellezza,
fragile e preziosa come trama di cristallo.
Ha la polvere leggera dei ricordi
e profumi dimenticati.

Si nasconde al viandante frettoloso
che non vede oltre l’apparenza,
ma allo sguardo di chi sosta si rivela,
misteriosa e profonda.

Non cammina con superbia
ma si china, portando i suoi dolori.

Le sue rughe sono i segni della storia
e ciascuna la racconta,
con parole di pazienza e di coraggio.

Un sorriso e si perde nella nebbia, come un canto che sfuma,
poi ritrova la strada.
Il suo dono è la lentezza, la sapienza di chi attende.

La sua forza è nella terra, nel poco è la ricchezza.

Ha i colori dolci e caldi del tramonto,
che mutano e si fondono e svaniscono
senza inizio e senza fine.

Il suo eterno è nell’amore seminato.

La sua pace è nell’amore di chi resta».

 

 

Fidarsi e affidarsi

Queste parole sono nate in me grazie ad una persona semplice e dolce che ho conosciuto e accompagnato negli ultimi passi del suo cammino terreno. Mi ha colpito profondamente, perché ho visto in lei la perfetta espressione della fragilità che appartiene alla natura dell’uomo ma che, nel nostro tempo totalmente proiettato alla ricerca dell’autonomia, è guardata spesso come qualcosa che toglie alla vita valore e dignità.
Ogni giorno viviamo l’esperienza del limite, nel corpo e nello spirito che sono una cosa sola, ma facciamo fatica a chiedere l’aiuto dell’altro, perché siamo condizionati da una sorta d esaltazione del bastare a se stessi e la perdita dell’autonomia ci appare come una prospettiva inaccettabile. Desideriamo fidarci e affidarci, ma allo stesso tempo ci difendiamo da una vicinanza troppo stretta, capace di abbattere le nostre difese e di mostrare quello che siamo realmente.
Si nasce totalmente dipendenti e affidati all’amore di qualcuno, eppure capaci di vivere con gioia quell’abbandono senza condizioni, ma quella sapienza originale e perfetta svanisce a poco a poco, mentre cresce la paura di riconoscere e mostrare le nostre debolezze, i nostri limiti, il nostro bisogno di accoglienza, di aiuto, di cura.
Eppure Dio stesso ha scelto di abitare la fragilità e di incarnarsi in essa. È entrato nella storia manifestandosi con un corpo che è stato generato, nutrito, accudito, coccolato e protetto e poi disprezzato e deriso e ferito e abbandonato. E nell’ora più difficile, quando la sofferenza è diventata troppo pesante, ha manifestato il suo bisogno dell’altro e ha chiesto di non essere lasciato solo.
Riconoscere la nostra condizione di vulnerabilità e di dipendenza significa riconoscere la nostra umanità, quell’umanità che Cristo stesso ha voluto pienamente condividere. La scelta della Croce, che esprime il massimo dell’umiltà e della fragilità, è un richiamo forte a cogliere e ad accogliere la domanda di presenza, di solidarietà, di vicinanza che tutti dovrebbero poter manifestare con fiducia e con libertà. Pensare a questo può aiutarci a fare pace con la nostra debolezza e, allo stesso tempo, può renderci consapevoli di quanto ogni persona sia bella e preziosa sempre, nella pienezza della forza e della salute come nel bisogno della malattia e della vecchiaia.
C’è un’incredibile potenzialità terapeutica nella cura che celebra la dignità della persona e il sacro che la abita: è come un balsamo capace di alleviare il dolore della fragilità, della dipendenza, del senso di inutilità. Ci fa sentire che i limiti non toccano il nostro valore e ci restituisce la capacità di abbandonarci all’abbraccio dell’altro.

 
La capacità di generare benessere

Dovremmo avere una maggior consapevolezza delle nostre capacità di generare benessere. Basta un po’ di tempo, un sorriso, una carezza, una presenza silenziosa e paziente capace di ascoltare senza trasmettere fretta o fastidio. Sono piccole cose che dicono: «io ora sono qui con te e per te e questo mi fa stare bene, perché tu sei prezioso ai miei occhi». È così facile sentirsi in colpa quando si ha bisogno, ma questa sofferenza diventa più leggera se vediamo nell’altro non solo la fatica, ma anche la gioia della cura.
C’è sempre una reciprocità: si dona ma si riceve più di quanto abbiamo donato. Non c’è investimento migliore dell’amore, un’energia feconda che vive e si alimenta e si rinnova nel trasmettersi incessantemente da una persona all’altra. Accogliendo la fragilità mettiamo in gioco la nostra umanità e impariamo una vicinanza che è il senso vero della comunione. Qui sta la vera fraternità, nell’aver cura dell’altro come vorremmo essere curati noi. E questo bene donato alimenta la speranza di ricevere nell’ora del bisogno.
Nel momento della massima debolezza, quando siamo totalmente affidati all’altro, possiamo sentire ancora che il nostro valore è integro, se siamo guardati e toccati e serviti con amore e con rispetto. Allora curare diventa prendersi cura e la sofferenza del corpo e dello spirito, abbracciata e compresa e condivisa, trova senso e sollievo, perché non è più sola.