Emigrare humanum est

La grave necessità obbliga a tentare di superare i limiti dettati dai confini territoriali

 di Giusy Baioni
giornalista freelance

Proviamo a immaginare

Immaginate di vivere in un paese in guerra. Oppure di trovarvi sotto una feroce dittatura, o un regime dispotico che controlla tutti i vostri movimenti e non vi lascia la minima libertà. Immaginate di dovervi sempre guardare le spalle, di non poter commentare le vicende politiche, di dover stare sempre attenti a ciò che dite al telefono, a ciò che scrivete nelle mail, a ciò che esprimete in pubblico.


Immaginate di avere preso una posizione politica critica verso il partito al potere nel vostro paese e di esser perseguitato per questo. Immaginate di essere omosessuale in un paese dove questo è reato e rischiate pesantissime condanne a anni di carcere.
Oppure, semplicemente, immaginate di vivere in un paese senza spiragli, senza possibilità, senza futuro, dove nulla funziona (scuola, sanità, servizi pubblici…), dove al potere c’è una manica di cleptocrati che ingrassa i propri conti all’estero e alla povera gente non resta nulla. Immaginate di voler godere di un’altra possibilità, o di volerla offrire ai vostri figli, perché non passino quello che avete passato voi per tutta la vita.
Sono tanti i motivi che spingono a partire. Normalmente - fatta salva la possibilità che ciascuno dovrebbe vedersi garantita di poter scegliere di vivere come e dove vuole - normalmente, dicevo, nessuno lascia la propria patria, la propria famiglia, i propri affetti se non vi è costretto. Decidere di partire è sempre una decisione importante. Ci si mette in gioco, si va verso l’ignoto. Ma se il mondo conosciuto non offre opportunità, o magari è fatto solo di fame e violenza, allora si rischia il tutto per tutto. Non si ha nulla da perdere. Qualche volta, sì, c’è l’illusione di una vita migliore, il sogno di un’Europa-Eldorado che non esiste. O una promessa infingarda, come quella che viene fatta alle giovani nigeriane, di lavorare come babysitter… che poi si tramuta in una condanna al marciapiede.
Ormai la stragrande maggioranza dei flussi che giungono sulle nostre coste partono dall’Africa. I siriani sono bloccati in Turchia, grazie agli accordi stipulati fra l’Unione Europea e Erdogan. Così anche gli altri orientali in fuga, che siano afgani, pakistani, iracheni. La rotta maledetta del mediterraneo resta invece aperta. Impossibile pattugliare tutto il mare. Impossibile chiuderlo. E a poco serve stipulare accordi con la Libia, dove il governo non controlla il paese. Che poi questi accordi altro non farebbero che condannare i migranti alla detenzione in centri libici che sono un inferno, per tutti quelli che ci sono passati.

 Colpevolmente ignoranti

Poco sappiamo, spesso, delle situazioni da cui fuggono i migranti africani. Non conosciamo i loro paesi di provenienza, le crisi politiche e sociali che li costringono alla partenza. L’Africa per noi è un tutto indistinto, poco ci raccontano le cronache di quanto accade sotto il Sahara e questo non aiuta certo a comprendere. Non sappiamo, ad esempio, che chi tenta la traversata maledetta è meno del 10% dei profughi del continente. La stragrande maggioranza di chi scappa si sposta nei paesi limitrofi, o resta sfollato interno. I nigeriani in fuga da Boko Haram si spostano in Camerun, i burundesi scappati da un regime sanguinario sono in Rwanda, Congo e Tanzania. I somali che da anni hanno lasciato il paese sono concentrati nel campo profughi più grande del continente, Dadaab, in Kenya. Ciò che noi vediamo, dunque, è solo la minima parte di un disastro che affligge il continente in proporzioni ben peggiori.
Il punto è proprio questo: cosa sta accadendo in Africa e perché sono così tanti a fuggire? Quante di queste crisi umanitarie dipendono da fattori imprevedibili (come la forte siccità che sta colpendo il Corno d’Africa) e quante invece alla base hanno crisi politiche che sarebbero dunque risolvibili? Quanta complicità o tolleranza esiste da parte di governi occidentali e multinazionali verso dittatori e despoti che affamano i loro popoli?
Sapete ad esempio che fra i richiedenti asilo c’è un numero altissimo di gambiani? Il Gambia è una sottile lingua di terra incuneata nel Senegal. Dominata, fino a poco tempo fa, da un dittatore che provocava la fuga sistematica di tutti i giovani maschi dal paese. Fino a che, a gennaio scorso, finalmente Yahya Jammeh ha capitolato ed è fuggito dal paese. E molti dei gambiani scappati nei mesi precedenti stanno rientrando nel paese. È solo un piccolo esempio, ma mi pare renda bene l’idea di cui sono convinta da tempo: che la vera soluzione alla crisi migratoria è politica. E non nel senso degli accordi bilaterali per i rimpatri forzati, come si dice spesso, ma nel senso di risolvere alla radice i problemi che inducono alla fuga migliaia di persone. Mentre spesso con il dittatore di turno ci sono connivenze e silenzi accomodanti.
C’è poi da considerare un altro elemento: ad oggi, praticamente non esistono vie legali per venire in Europa. Ottenere un visto è impossibile. Le ambasciate non li concedono. Quindi anche chi, magari di famiglia benestante, volesse ad esempio venire a studiare da noi, avrebbe serie difficoltà ad ottenere la documentazione necessaria. L’unica strada, purtroppo, resta quella di sfidare la sorte con la traversata del Mediterraneo (di cui tanti però ignorano la pericolosità estrema) e poi la richiesta di asilo. Tutti ormai seguono questo iter. Non c’è altra via.

 Sfumature burocratiche

Un’ultima riflessione. Ai nostri politici piace tanto la distinzione fra “richiedenti asilo” e “migranti economici”. Una distinzione in realtà non così netta. Anzitutto, perché la povertà estrema, la mancanza di servizi essenziali sono o potrebbero essere - a mio avviso - un motivo sufficiente per avere diritto a un “asilo”. Ma le leggi internazionali non dicono questo. Sapevate che nemmeno chi fugge da zone di guerra ha automatico diritto all’asilo? Al massimo ti concedono la “protezione umanitaria”. Le regole per ottenere lo status di rifugiato sono severe e stringenti.
E poi… e poi anche chi parte come “migrante economico”, dopo la traversata del deserto, cade in mano ai trafficanti di uomini, passa mesi in Libia, subendo le peggiori angherie, ivi compresi stupri e torture, magari viene caricato a forza sulle carrette del mare: alla fine di questo percorso infernale i traumi sono talmente profondi che anche chi era partito solo per “cercare fortuna” giunge sulle nostre coste come una persona che ha bisogno di protezione umanitaria. E non lo si può ignorare.