Si può provare a vivere la parrocchia in modo diverso, più centro di evangelizzazione che non struttura che organizza i servizi religiosi? Molte realtà in Italia ci stanno provando. Ne ho incontrata una a Savignano sul Rubicone. A partire dal cuore della vita comunitaria, la celebrazione eucaristica. E siccome vale ancora il detto dei nostri padri, “come si prega, così si vive”, da come si vive la messa si coglie che comunità c’è dietro.

Gilberto Borghi

 Il calore della funky-parrocchia

Una liturgia che sa armonizzare istanze estetiche e contenuti evangelici 

Comunicare la gioia di essere qui

Fuori fa -3°, ma dentro il clima è molto più caldo. È la domenica del battesimo di Gesù.

Mancano 20 minuti alla messa, ma quando entro le prove dei canti sono già al top. Coro di giovani con la stessa maglietta, con su un “pay-off” che suona più o meno “Gesù è il mio “Rock” (la mia roccia) e come lui adesso “Roll” (ballo, giro, mi muovo, vivo). Strumenti a fiato e corde soprattutto, batteria lieve, non troppo dura. Qui la chiamano la messa rock.
In pochi minuti, la Chiesa si riempie. Un prete confessa in un angolo, moltissimi sono giovani tra 20 e 30 anni. Ma c’è anche un gruppo di over 30. Dalle altre parrocchie dell’unità pastorale arrivano a frotte. E ben prima dell’inizio ci sono già più di 300 persone. Non una messa ordinaria, ma una messa “particolare”, due volte all’anno, costruita dai giovani della zona pastorale Savignano-San Mauro, per i giovani. Si inizia sul sagrato, con un freddo che congela, con un gesto di abluzione che ci faccia entrare nel clima, nel tema, senza troppe parole di spiegazione.
I canti si sentono, eccome. Si avverte che sono stati pensati e scelti con cura, come tutta la celebrazione. E la canzone iniziale, con l’invito a ballare e cantare tutti, la dice lunga sul desiderio di comunicarci la gioia di essere qui con il Signore risorto: si può celebrare una gioia stando fermi? Si può davvero sentire di essere toccati dalla liberazione che Gesù ci regala, senza che la nostra voce, le nostre mani, i nostri piedi possano manifestarla? Ovvio che questo porta con sé la necessità di un clima liturgico meno ingessato e formale, meno “sacrale” forse, se per sacrale si intende una forma in cui prevale il timore e la gravità del momento, piuttosto che la gioia e la libertà dei figli di Dio. 

Sentire prima che capire

La liturgia della parola campeggia sul maxi schermo alle spalle del celebrante, in cui oltre allo scorrere dei testi delle canzoni si possono anche seguire le letture. Il salmo recitato dentro una canzone, che ne richiama il tema, per ridare spessore alla nostra risposta alla Parola che Dio ci ha regalato. Ma è soprattutto l’omelia a dare un tono diverso a questa parte della liturgia. Dopo una brevissima introduzione, semplice ed efficace del tema di fondo, fatta dal celebrante, dal video spuntano le storie di 4 ragazzi che raccontano la loro esperienza di incontro con Cristo. Semplici, dirette, senza fronzoli eccessivi. Pochi minuti, ma il tentativo di fare sentire, prima che capire, che “Jesus changes everything” nella nostra normale vita quotidiana è palese e forse più efficace di mille parole teologiche.
Poi l’annoso problema della preghiera dei fedeli. Spontanea? Preparata? Davvero dei fedeli o del celebrante stesso? O presa dal foglietto? Una piccola pillola di teologia, per lo più incomprensibile, o l’espressione semplice e non raffinata del desiderio vivo di qualcuno? Qui la scelta è di renderla personale, senza esprimerla, ma soltanto formulata nell’intimità di ognuno, in silenzio.
Poi la liturgia eucaristica, dove i segni della “diversità” di questa messa cedono il passo alla struttura liturgica classica, non prima di aver espresso la gioia dell’offerta dei doni all’altare, attraverso il ballo. Ma anche dove la ricerca di una intimità individuale con Gesù lì presente si rende percepibile nel silenzio dell’offertorio e nella scelta di una lieve e calibrata musica di sottofondo.
Certo si potrebbero trovare elementi critici in questa celebrazione, ma a me fa più figura il tentativo di dare “vita” anche sensibile, oltre che spirituale e teologica, al gesto più alto ed essenziale di una comunità. È vero che la partecipazione dell’assemblea resta “ingessata”, ma alla fine più della metà della Chiesa fa i gesti del ballo e persino gli over 30 provano a canticchiare. Il celebrante stesso, alla fine dice che l’assemblea partecipa e si muove poco, ma si è mossa molto di più dell’anno precedente. Qui c’è spazio di miglioramento, ma la strada è interessante. 

Faro di vita di comunione

“Viviamo oggi una nuova fase, - dicono don Davide, don Francesco, don Giampaolo, don Vittorio: i sacerdoti di questa unità pastorale - che è insieme di rinnovamento e superamento della vecchia immagine di parrocchia. Innanzitutto la parrocchia dovrà essere faro di vita di comunione, aperta a chiunque vuol vivere una esperienza di vita fraterna secondo il vangelo. Poi deve esserci vita di preghiera, una preghiera viva che diventa alimento per la vita. In terzo luogo deve aiutare a leggere i segni dei tempi. Infine, ma non certamente per ultima, la carità. Più che le parole contano i fatti e un gesto di carità annuncia Gesù Cristo più che un bel discorso. E poi occorrerà snellire o anche dismettere diverse delle strutture che abbiamo per crearne altre più rispondenti ai tempi presenti ed alle istanze evangeliche”.
Ed in effetti questi indicatori si ritrovano nella celebrazione: comunione, preghiera, segni dei tempi, gesti più che parole. Ma soprattutto si ritrovano quei tre verbi finali: snellire, dismettere, creare. Ad esempio, dietro a questa celebrazione ci sta la riapertura della casa don Baronio, storica istituzione educativa di Savignano che per 120 anni, fino al 1991, aveva rappresentato un punto di riferimento per tutti, cattolici e non: “Non una casa per accoglienza, ma dell’accoglienza, dove cioè delle persone vivono abitualmente la loro amicizia e fraternità, pronti a stare con chiunque abbia voglia di fare esperienza di fraternità”. Qui ragazzi, che scelgono di mettere a servizio la propria quotidianità, accolgono i coetanei che passano dalla casa: chi per curiosità, chi per desiderio, chi per necessità, chi per sbaglio, chi per la voglia di stare insieme, o di stare da solo con Gesù, dalle lodi a compieta. Una forma concreta per riattivare il senso di comunità, saltuaria, per pochi giorni, ma che altrimenti nella celebrazione si potrebbe vedere.
Dietro a questa celebrazione ci stanno anche gli “aperitivi”: un modo informale che la comunità sta tentando, per rendere effettivo il bisogno pastorale di tornare ad evangelizzare. In queste occasioni i giovani dell’équipe, insieme agli educatori dei gruppi, una volta al mese organizzano un aperitivo in un bar, in cui un moderatore e un esperto della tematica del giorno animano una discussione tra giovani su temi esistenziali che hanno attinenza con la ricerca di “senso” e di spiritualità.
E non da ultimo, dietro a questa celebrazione ci sta anche una piccola rivoluzione, su come intendere il ruolo del prete nella comunità. Continua don Davide: «Immagino una nuova figura di prete-pastore, più simile a quella di “evangelizzatore” che di guida della parrocchia. Non una guida direttiva, ma piuttosto di incoraggiamento. Non un prete che traina in prima fila, ma piuttosto che raccoglie chi si ferma e spinge dalle retrovie. Un prete che è fratello nel cammino, che vive in comunione con i suoi collaboratori laici e che è attento a tutti, guardandosi dal rischio di creare un cerchio magico di pochi, che esclude coloro che non condividono le scelte fatte o che crea i “vicini” e i “lontani”. Si dovranno rivedere anche i compiti dei preti: non sarà più possibile fare le tante attività che oggi si fanno. Occorrerà stabilire delle priorità diverse rispetto al passato». Gli auguro di riuscirci.