Che cosa è e che cosa non è la missione. Pubblichiamo una sintesi dell’intervento al Convegno provinciale di ottobre “Quale vangelo dalle nostre missioni?” di fr. Hugo Mejia, che fa una panoramica dell’attività missionaria “ad gentes” dei frati cappuccini nel mondo intero. Essenziale è l’ascolto delle persone a cui ci si rivolge.

Saverio Orselli

 Missione, trasmissione e dimissione

Il futuro di ogni missione dovrà essere nelle mani di coloro che sono missione 

di Hugo Mejia
cappuccino, consigliere generale e segretario generale delle missioni

 La missione sono le persone

Quella del Segretariato delle missioni è un’esperienza veramente bella, perché imparo molto, anche se, allo stesso tempo, è dura, perché viaggiare così tanto stanca, con il continuo passare da un continente all’altro, da un fuso orario all’altro.

Una cosa però è parlare della missione e un’altra è essere lì, per uno, due, dieci, trenta o quarant’anni: imparare un’altra lingua, entrare in un’altra cultura, fanno la differenza. Mi voglio complimentare con voi per il cammino di ascolto e riflessione che avete intrapreso. A volte parliamo tanto e poi quando c’è da prendere delle decisioni finiamo col tirare le cose per le lunghe, cercando giustificazioni varie.
Prima di tutto vorrei chiarire il mio concetto di missione. Missione per me non è un luogo particolare, un posto specifico, un’area geografica o un tipo di attività; non sono nemmeno le cose che facciamo, come evangelizzare, annunciare la Parola; e poi le altre attività come l’educazione, le opere sociali, la costruzione di strade, ponti…  Per quanto importanti, la missione non è questo. Missione sono le persone concrete, in carne e ossa. Le persone sono le destinatarie di tutto quello che possiamo dire o fare e ricevono la nostra testimonianza là dove andiamo. Mi è capitato tante volte di vedere organizzare piani pastorali fantastici, con esercizi e ritiri spirituali, programmi vari, catechesi, assemblee, capitoli e incontri, dimenticando di parlare con la gente. Se va bene, a volte ascoltiamo il Consiglio pastorale, ma più spesso decidiamo da soli, dimenticando le persone, le prime che dovremmo ascoltare, per capire e lavorare insieme. Mettere al centro le persone significa essere attenti a cosa desiderano, di cosa hanno bisogno, come possono vivere meglio la fede. Occorre ascolto. Non importa se la comunità è cristiana da secoli – come la Georgia, una chiesa apostolica – o se non vi sono cristiani e dobbiamo cominciare tutto da capo. Con le persone cresceremo nella fede, perché non andiamo solo a insegnare qualcosa o a condividere qualcosa che non hanno e che riceveranno da noi, andiamo anche per imparare. Dobbiamo avere continuamente questo desiderio di imparare sempre e in ogni momento. Quando dobbiamo prendere delle decisioni sulle missioni, pensiamo invece a quanti frati abbiamo, a che cosa serve in Provincia, alle risorse necessarie, e consideriamo questi elementi fondamentali, dimenticando spesso le persone destinatarie della missione.

 In missione con tutto il cuore

Negli incontri sulla missione spesso leggo qualche passo dalla lettera del Ministro Generale, fra Mauro Jöhri, “Nel cuore dell’Ordine, la Missione”. E ogni volta mi ritrovo a chiedermi se davvero la missione sia nel cuore dell’Ordine. L’Ordine è fatto di 10.300 frati di 109 Paesi, e forse è meglio chiedersi: la missione è nel mio cuore? e questo cosa significa? cosa mi viene chiesto?
Quando parliamo nel Consiglio Generale di una missione nuova – e ce ne sono alcune – il primo problema è “dove prendiamo i frati da inviare?”. Bella domanda! Se pensi a qualcuno, devi mettere in conto che il Provinciale non lo lascerà andare, oppure ci sarà la difficoltà per le lingue… Trovare delle persone è un po’ difficile; trovare disponibilità anche. Finché arriva qualcuno che ti dice “sì, io voglio essere missionario e andare – che ne so – in Cina”. Bene… “però solo per tre anni” anche se bastano appena per imparare un po’ il cinese. “Va bene, ma io dopo tre anni voglio tornare in provincia”. Di che missione stiamo parlando? Questa è una passeggiata non è missione, è un bel viaggio. A volte parlo con frati giovani che vanno in missione e hanno difficoltà. Un tempo, quando si partiva, ci si staccava completamente dalla propria terra, cultura, famiglia, amici; ma oggi non è così. Questo è l’approccio di oggi: posso andare a 15.000 chilometri di distanza da casa, accendo skype e mi collego con parenti, amici, confratelli. Si tratta di una opportunità buona che però significa che metà del mio cuore è a casa e l’altra in missione. E finiamo per essere divisi: queste sono situazioni che dobbiamo essere pronti ad affrontare, difficoltà tipiche dei nostri tempi. La scelta della missione è una decisione seria e ci si deve preparare bene prima della partenza.

 Un insolito annunciatore

Mi avete chiesto di parlare di esperienze, di come stanno cambiando le missioni; vorrei raccontarvi prima cosa è successo a me, non da Segretario per le missioni ma da novizio nel 1993. Durante il noviziato a Lima, andammo a fare una settimana di esercizi spirituali in montagna, in un posto bellissimo. Ogni giorno andavamo in diversi posti insieme, anche se poi sceglievamo un luogo dove restare in solitudine, un punto della montagna, la riva del fiume o il bosco per meditare. Quella era ancora un’epoca di terrorismo in Perù – il peggio fu tra il 1980 e il 1995, poi è arrivata la pace – e quella zona era rischiosa. Avevo trovato un bel posto per meditare e avevo con me letture e preghiere per la giornata, quando arriva un ragazzo che mi saluta e mi chiede cosa stessi facendo. Dopo qualche battuta mi dice “lo sai che con il mio fucile potrei sparare a una persona dall’altra parte della montagna e ucciderla?”. Ci mancava un terrorista! mi sono detto, mentre a lui ho risposto “interessante… hai un fucile potente”. A quel punto ha cominciato a spiegarmi com’era fatto, che pallottole usava, la velocità che raggiungevano, l’aria, la temperatura… Che strani esercizi spirituali sono mai questi, mi dicevo sempre più preoccupato. Lui mi ha detto: “Sai che qua ci sono tanti di Sendero Luminoso... e sono venuti un giorno a cercarmi. Io abito in un paese qui vicino dove c’è una piccola chiesa dove il prete non viene mai, se non due o tre volte all’anno. I terroristi volevano che andassi con loro a fare la lotta armata, il comunismo, ma io mi sono ricordato di una volta in cui il prete mi aveva detto che Dio è buono e che quando piove, piove per tutti e fa uscire il sole per tutti, per i buoni e per i cattivi, e che Dio offre tutte queste cose alla gente. Così ho detto loro che non li seguivo, perché sapevo che Dio è buono e vuole il bene per tutti, così come questo sole è per voi e per me. Credo in questo Dio e per questo non vi seguo e nessuno di questo paese verrà con voi. Così se ne sono andati”. Dopo poco mi ha salutato e se n’è andato, lasciandomi solo a meditare. È stata una predica per tutta la giornata e non solo. Guardavo i miei libri e le mie letture e pensavo a lui, un povero contadino che ascoltava la Parola di Dio raramente, e che era stato colpito da quella Parola più di me! Lui era stato missionario per me; lui mi aveva annunciato la Parola così, perché l’aveva capita meglio di me. Queste sono le persone che noi troviamo nelle nostre missioni.

 La forza di un passo indietro

Una volta ho letto che i missionari belgi, mi pare nel 1700, sono andati nel Congo e, nell’arco di una ventina d’anni, hanno inviato circa 400 missionari, perché sapevano che qualcuno moriva durante il viaggio o non resisteva, si ammalava, e quindi volevano assicurare la presenza e il lavoro dei frati. Le cose sono decisamente cambiate. Non abbiamo più 400 frati da inviare da nessuna parte. Quattro forse, e poi che questi possano vivere insieme è un altro conto ancora!
Quei frati hanno portato grandi contributi a livello culturale, così come a livello linguistico. Se volete imparare una delle lingue degli indigeni del Venezuela, gli autori dei testi sono cappuccini; stesso discorso per i nativi del centro nord degli Stati Uniti: grammatiche, vocabolari, tutte opere di cappuccini. Questo vale per la medicina, per l’educazione, per le coltivazioni, per l’urbanistica, come Mar de la Plata in Argentina, dove quest’anno ho potuto ammirarne il disegno armonioso, frutto di un nostro confratello che seppe entrare nella cultura della comunità locale e capire quel che serviva in un posto così.
Gli aspetti positivi nelle nostre missioni sono tanti. Innanzitutto la disponibilità dei nostri confratelli; si trova ancora chi lavora nel silenzio, in condizioni veramente difficili: questa testimonianza non ha prezzo. Di per sé la stessa presenza dei frati cappuccini là dove si vivono situazioni di violenza è già tanto, significa “io sono con te, non ti lascio, sono accanto a te e ci resto”. In certe nazioni è davvero tanto e i frati lo fanno con gioia e con semplicità, con tutte le caratteristiche francescane apprezzate dalla gente. Ci sono frati che mettono in pericolo la propria vita per la missione, per il lavoro che devono svolgere, in Africa, in Asia, in Siria, dove c’è ancora una presenza piccola, debole, che però ancora resiste. Vi sono altri posti dove consideriamo la violenza normalità, al punto che nemmeno se ne parla. Ad esempio la mia America Latina: provate a cercare le 50 città più pericolose al mondo e scoprirete che almeno 45 sono in America Latina e i nostri frati lavorano lì: Guatemala, Honduras, San Salvador. In ognuno di questi paesi ci sono 500-600 omicidi al mese e nonostante queste cifre spaventose i nostri frati sono presenti. Il nostro calo delle vocazioni è evidente, così come sono in calo le risorse economiche che influiscono particolarmente in missione dove le vocazioni locali, quando cominciano a crescere, si trovano con delle “eredità” – strutture grandi da gestire – che i frati locali non riescono a gestire.
La nostra presenza dovrebbe essere riassumibile così: missione, trasmissione, dimissione. Si tratta di un processo ancora spesso incompleto. La missione: andiamo, facciamo il nostro compito, lavoriamo bene, cominciamo ad avere vocazioni locali – ecco la trasmissione – poi i frati locali cominciano a prendere responsabilità di tutto (economia, formazione, ecc.) fino al passo finale, forse il più difficile, la dimissione, perché dopo essere stati presenti per 30-40 anni e aver fatto crescere la comunità locale, non è facile fare un passo indietro e lasciare che altri gestiscano le cose che abbiamo realizzato. Nelle visite che facciamo spesso ci troviamo a dover affrontare tensioni tra missionari e province locali: ciò che è nato come missione e ha fatto tutto il processo, fino a diventare una realtà locale, deve poter camminare autonomamente.
Per concludere, due elementi per me importanti, i laici e il denaro. Noi non possiamo più gestire le missioni da soli e, allo stesso tempo, dobbiamo dare seguito a ciò che chiede il Papa, aprire le porte e andare incontro alle persone. Il CPO ha parlato di uscire dalle sacrestie. Non riguarda solo noi frati ma anche i laici delle nostre comunità, così stiamo facendo partire una organizzazione nuova di volontariato laico cappuccino per le nostre missioni – per cominciare Burkina Faso, Ghana e altri ancora – e le prime risposte sono incredibili: è bastato rendere nota questa possibilità che in 24 ore oltre 1700 hanno letto l’articolo e, di questi, tanti hanno già chiesto come aderire. Questa sarà una trasformazione importante e la risposta sono certo sarà ottima, mentre ho più paura di come noi frati accoglieremo questi volontari e le eventuali “critiche costruttive” che potranno muovere al nostro modo di lavorare.
Infine, i soldi. Le missioni richiedono ovviamente risorse economiche. I nostri Segretariati lavorano molto su questo aspetto. Ho lasciato apposta alla fine questo argomento, perché più importante è formare le persone e motivarle, formare chi è già in missione, sviluppare il concetto di missione indirizzato alla gente e poi lavorare per le risorse economiche: troppo spesso lavoriamo solo per cercare soldi. Dobbiamo lavorare soprattutto per preparare e formare la nostra gente, i laici e i frati missionari. Ora è il momento dell’ascolto e della decisione, di guardare avanti al futuro. Guardare il futuro consapevoli che non è nostro, ma di quelli che abitano nelle missioni, di quelli che sono la missione.