Inizia una rassegna dei nostri conventi cappuccini in Emilia-Romagna: una storia di cinquecento anni, con un’infinità di vicende curiose, liete e drammatiche; e ricca di figure di frati che si fa fatica a dimenticare. Iniziamo da Bologna, capoluogo della Regione e della Provincia cappuccina. Segue il consueto fioretto cappuccino, con fra Vittore che insegue un ladro. Infine, il ricordo di un nostro confratello defunto.

Nazzareno Zanni

Memoria di un convento

La storia difficile del Convento di Bologna con i suoi protagonisti 

Un convento vissuto da tanti

Ci hanno vissuto un po’ tutte le qualità di erbe che crescono nella Chiesa: monaci, suore di varie etnie religiose, frati vestiti di nero e frati con il saio marrone. Sono questi ultimi che ancor oggi ne sono gli inquilini a distanza di due secoli dalla loro comparsa in questo luogo fuori Porta Saragozza.

L’antica storia del convento ha visto questo fabbricato per tanti secoli respirare l’aria di campagna a ridosso delle colline bolognesi, nella Val di Pietra; ora però è inserito nel pieno contesto urbano di Bologna, a lato del portico che, come un lungo serpente, si inerpica al santuario della Madonna di San Luca. Prima abitato dai monaci silvestrini, da suore agostiniane e da suore domenicane, nel secolo XVII fu teatro di un episodio quanto mai spiacevole per i Servi di Maria che abitavano in città. Nel convento fuori dalle mura cittadine erano allora presenti le suore domenicane, donne indifese, esposte a ogni genere di pericoli. Nel 1566 ci pensò il Papa a sponsorizzare la loro castità, ingiungendo ai Servi di Maria di procedere alla permuta del loro convento cittadino di Borgo Galliera con quello extra moenia delle suore. Fu un’autentica randellata per quei frati. Lo scambio avvenne di notte al lume di torce con due distinti cortei che avanzavano in direzioni opposte per vie diverse, evitando il pericolo di incontrarsi. O di scontrarsi. Le cronache del tempo riferiscono che i Servi di Maria procedevano in silenzio, come andando a un funerale. Nel lasciare però il loro convento intra moenia, i Servi di Maria si vendicarono con le suore usurpatrici, facendo loro lo sgarbo di trasferire il titolo della loro chiesa cittadina, dedicata a San Giuseppe sposo di Maria, alla chiesa lasciata dalle suore, dedicata a S. Maria Maddalena, che divenne così la chiesa di San Giuseppe, forse il titolo più antico dell’Occidente. Le suore domenicane, pur contente di abbandonare un convento insicuro, abbandonavano anche un pezzo della loro storia: il miracolo eucaristico avvenuto tra quelle mura della loro beata Imelda Lambertini, una novizia di tredici anni che, non potendo ricevere la comunione perché troppo giovane, fu comunicata con un’ostia scesa improvvisamente dal cielo, dove essa subito dopo volò in seguito a morte per l’immensa gioia provata. 

L’esproprio di Napoleone

L’arrivo dei cappuccini in tale antico convento ha seguito il corso della storia d’Italia. Questo ramo del fecondo albero francescano era apparso a Bologna fin dal 1555, quando fu eretto per loro un fabbricato sul Colle Belgodere (o Belvedere), da cui si dominava tutta la città. Quando i frati ne presero possesso, per rendere austero il luogo lo denominarono Monte Calvario, e la Chiesa ebbe il titolo di Santa Croce di Monte Calvario. Quella posizione fuori città era ideale per i poveri cappuccini e corrispondeva alle loro Costituzioni, che volevano conventi fuori dall’abitato, ma non troppo distanti. Era un convento di un’architettura molto semplice e spoglia, tipicamente cappuccina, però era capace di accogliere un centinaio di frati. Praticava un’economia di autarchia, e a quello che non poteva essere prodotto in convento sopperiva la questua dei fratelli laici a dorso di mulo: il frumento per il pane, la legna per la stufa della cucina, la lana per il lanificio, la carta per annotarvi le memorie del convento. Tutto trascorreva tranquillo, ma poi…
Se Napoleone fosse rimasto nella sua France, probabilmente i cappuccini abiterebbero ancora nel loro primitivo convento. Nossignori, quell’omino, nato con una fame di espansione mai sazia, occupò l’Italia, sopprimendo nel 1810 tutti gli ordini religiosi, con requisizione dei loro beni. I cappuccini, privati della chiesa e del convento, si dispersero: i fratelli laici ridotti allo stato laicale e i sacerdoti a semplici preti. Quando la bufera si calmò i cappuccini ricompattarono le file e tentarono di ricomprare la loro antica sede, ma tutto era stato demolito e sulle rovine era stata costruita una villa – Villa Revedin, oggi residenza del Vescovo della città – con un prezzo d’acquisto inavvicinabile per la bisaccia cappuccinesca. E fu qui che, con le offerte di benefattori, venne acquistato il convento di Val di Pietra, ormai abitato da un prete solo. La parrocchia ivi esistente fu soppressa, e i cappuccini vi poterono entrare in forze l’11 ottobre 1818: 11 sacerdoti e 16 fratelli laici.
I cappuccini, contenti della nuova sede a ridosso delle mura bolognesi ma ancora in zona campestre, con la questua di fra Pasquale da Vergato riuscirono a racimolare il denaro sufficiente per costruire negli anni 1840-44 una nuova chiesa più ampia e dignitosa, perché il vecchio fabbricato era ormai cadente. Negli 1865-66, nel quadro di una nuova soppressione per opera del Regno d’Italia – Napoleone aveva dato il buon esempio –, il convento venne confiscato per uso militare e anche la chiesa venne perduta, adibita dall’esercito per ricoverarvi i cavalli. I cappuccini furono secolarizzati di nuovo, tuttavia fu lasciato loro un piccolo ambiente, adibito a infermeria per i frati anziani, e una modesta cappella a lato della chiesa, vicino al cimitero conventuale. Ma i cappuccini, duri a morire, alcuni anni dopo diedero inizio al recupero del fabbricato. La chiesa fu riaperta al culto nel 1873, ma il riacquisto completo del convento si ebbe solo nel 1892.
Nel 1926, in occasione del VII centenario della morte di San Francesco, il terreno attiguo alla chiesa fu trasformato in giardino a uso pubblico, al centro del quale fu elevata un’alta colonna con una statua di San Francesco, e nel 1943, in piena guerra, la chiesa fu elevata a Santuario per implorare dal santo falegname la protezione della città. Ma ecco una nuova tegola, e che tegola stando ai resoconti del tempo. Nel 1959 il card. Giacomo Lercaro, arcivescovo della città, chiese ai frati di accettare la cura parrocchiale del territorio circostante. I cappuccini cercarono di opporsi, ma alla fine dovettero capitolare per intervento dello stesso papa Pio XII sul Ministro generale.

 I protagonisti

E i frati che vi abitarono nell’ultimo secolo? Pur non avendolo conosciuto, ho sentito parlare con ammirazione di padre Leonardo da Mercato Saraceno, frate stimato e amato da tutti per la sua comprensione, imperturbabile di fronte a qualsiasi evento negativo. Aveva rivestito tutti i ruoli a cui un frate poteva ambire, con un misto di bonomia e di tolleranza, ma anche di fermezza a difesa delle autentiche tradizioni cappuccine. Di lui si racconta che, quando era maestro degli studenti di teologia, si trovò a scendere per la lunga scala che dal primo piano porta al pianterreno. Un giovane frate, vedendolo di spalle e non avendolo riconosciuto, pensò di servirsene come ascensore. Gli montò sulle spalle e lo spronò a scendere, come se fosse un cavallo. P. Leonardo per nulla turbato se lo portò giù fino all’ultimo gradino, per poi voltarsi con un sorriso e dirgli: «Adess a si cuntent?» (Adesso siete contento?). Figurarsi la faccia di quel maldestro cavaliere!
Padre Francesco Antonio Samoggia era un uomo piccolo di statura, ma un gigante nel coraggio. Possedeva una dialettica invincibile nel contrapporsi prima ai fascisti e poi a comunisti. Per aver dato ospitalità a inglesi fuggitivi, fu scoperto e imprigionato a Verona nel carcere degli Scalzi, dove assistette i gerarchi condannati a morte per alto tradimento dal regime della RSI.
Padre Teodorico Ballarini era un frate posato, che aveva una grande conoscenza della bibbia, soprattutto di san Paolo, che studiava fino a notte avanzata, ma sempre trovando il tempo di confessare chi lo ricercava. Quando si recava in aula per l’ora di lezione arrivava con una pila infinita di libri che sorreggeva tra le mani e il mento, e che regolarmente non apriva, ma che forse gli servivano per dimostrare la sicurezza del suo insegnamento.
Suoi contemporanei furono due frati semplici come acqua di fonte: padre Raffaele Cati e fra Antonino De Lucca, l’uno sacrista e l’altro sacrestano e questuante. Padre Raffaele possedeva un’attenzione fraterna per i malati e i poveri. A tavola riempiva delle bottigliette di vino che riponeva in tasca e poi nel pomeriggio andava a visitare i suoi amici infermi nelle loro case portando loro il pane eucaristico e il vino dei frati. Fra Antonino era di convento a Forlì e fu per lui una tragedia quando fu trasferito a Bologna, perché Forlì era divenuto il suo mondo. Così padre Raffaele cercò di fargli coraggio: «Ti attendo a braccia aperte. Lavoreremo insieme come due buoni fratelli e, anche se non abbiamo tante capacità, dove non arriva l’uno arriverà l’altro e saremo... felici!». E fra Antonino in chiesa cantava con la sua voce tremula, e nel pomeriggio si recava a visitare i suoi benefattori.
Fra Isidoro Teglia era un partigiano bifronte, che forniva di armi i commilitoni nascosti sulle montagne bolognesi, ma che, per salvare capra e cavoli, sapeva anche cavarsela con i tedeschi, a cui aveva sottratto un mitra, con il quale a suon di mitragliate difese dai ladri notturni il convento tutto squarciato dai bombardamenti. Durante una visita a Padre Pio, questi gli disse, pur non conoscendolo: «Frate mitra, non si uccide la gente!», ma lui non aveva mai sparato a nessuno. Dopo alcuni anni di missione in India, in cui era diventato un perfetto indiano, era tornato claudicante in Italia. Dopo essere stato a lungo cuoco del convento di Bologna, fu infine addetto alla portineria, in cui dimostrò di saperne una più del diavolo.
Padre Amedeo Zuffa fu parroco per 34 anni nella neonata parrocchia di San Giuseppe, annessa al convento, durante i quali si trovò ad arginare la contestazione degli anni ’68, affrontando i subbugli di giovani decisi a sconvolgere l’ordine sociale e religioso della parrocchia con tanto di proclami affissi alla porta della Chiesa. Fu una grande sofferenza per lui, ma alla fine riacquistò la sua serenità.
Padre Ignazio Guidanti, per vari decenni segretario della Provincia cappuccia, sapeva dare un aiuto a tutti, pronto a uscire al mattino presto, neve, freddo o pioggia che vi fosse, per andare a celebrare da Istituti di suore. Era un autodidatta nella musica sacra: compose vari canti popolari, che sono ancora cantati in quel di Porretta Terme, dove spesso si recava per dare una mano nella pastorale.
Padre Callisto Luigi Giacomini, fu un maestro di musica ineguagliabile nella conoscenza del pentagramma e nella didattica. Insegnò strumentazione per banda nel conservatorio Martini di Bologna ed ebbe molti allievi, che continuarono a frequentarlo anche quando gli anni della pensione ne decretarono la fine dell’insegnamento ufficiale. Compositore fecondo, si specializzò soprattutto nella composizione di messe in latino e in italiano, nonché nell’armonizzazione a quattro voci di canti popolari, che rimangono come piccoli capolavori.
Questo il convento di Bologna che fu. E che ancora c’è, pur dovendo lottare contro le bizzarrie di chi sogna “una casetta in Canadà”.