IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE

L’ufficio è insolitamente tranquillo. Nella sala riunioni, sedute l’una vicino all’altra, ci siamo solo Maura ed io. Silenzio tutto intorno. Davanti a noi, sul tavolo sgombro di carte, il libro della Bibbia, chiuso. Chissà perché, fissandolo, mi viene in testa l’immagine di duellanti che si fronteggiano. Poi capisco e sorrido. È curioso come a volte il buon Dio si incunei nei nostri pensieri per segnalarci le false partenze. Torno al via velocemente. Guardo di nuovo il Libro e mi concentro: «Signore, aiutaci a fare quello che vuoi Tu e non quello che vogliamo noi».

 a cura della Caritas di Bologna

 

Storie di “non famiglia”

La coinvolgente parabola del figliol prodigo apre le nostre coscienze, permettendo un confronto sincero 

Guidati dalle parole di Gesù

Le parole di Maura mi suggeriscono le coordinate della concretezza: «La faccenda è delicata: la scorsa volta era Natale e di quello potevamo parlare, ma adesso: come possiamo proporre ai nostri amici del tè una pagina del vangelo senza “imporla”?

 Non solo: come facciamo a trovare uno stile che non sia troppo “spirituale”, né troppo “di chiesa”? Uno stile che li tenga legati alle loro esperienze di vita e al tempo stesso li raggiunga in modo un po’ diverso dal solito?». Ci scambiamo idee, perplessità, paure. Ci facciamo a vicenda molte domande. Ognuna pesca dall’esperienza che ha con la Parola. Cos’è ciò che emoziona, che fa ardere il cuore, ma anche provoca turbamento o stupore? Mentre passeggiamo liberamente sulle strade dei nostri modi diversi di incontrare Dio, si fa chiara, fra le altre, una domanda semplicissima, esattamente quella che cercavamo: «Ma come faceva Gesù per raggiungere proprio tutti con le sue parole?» La domanda giusta, porta già in sé la risposta migliore: Gesù inventava parabole, cioè raccontava piccole storie che chiunque potesse capire, con un messaggio semplice, eppure ricchissimo di senso e di profondità. Un messaggio che ne conteneva innumerevoli altri, a seconda di chi ascoltava e di come veniva ascoltato. Un messaggio vero per tutti e diverso per ognuno.
Ecco dunque la strada da percorrere ancora una volta: seguire l’esempio di Gesù. Saranno le parabole a guidare i nostri incontri. Il tema in programma è “la solitudine” ed è immediato per noi orientarci sulla parabola del “figliol prodigo”. Quando arriva il pomeriggio del nostro incontro, scopro che siamo in tanti. Le sedie sono quasi tutte occupate. Come al solito c’è un po’ di tensione. Ma il profumo del tè arriva alle mie narici e produce un effetto che mi stupisce di gioia: mi sento a casa. 
«Questa è la storia di una famiglia ricca, che è anche - come vedremo - una famiglia ferita dalla solitudine dei suoi componenti…». Maura tesse il racconto, che cresce piano piano e prende forma. Mentre lei parla, mi guardo intorno e scorro i volti dei nostri amici: nessuno si muove. Tutti sono assorbiti dalla sua voce che dipinge il testo sacro. Il racconto entra nelle nostre orecchie e affonda in noi come se non l’avessimo mai sentito. Mi viene da pensare al tempo in cui non c’era altro modo di trasmettere la Parola di Dio e provo l’emozione di chi vede i colori dell’alba dalla cima di un monte: qualcosa di ormai abituale appare in una prospettiva incredibilmente viva, pulsante, diversa. Poi Maura fa una cosa potente, che prende tutti di sorpresa: d’improvviso si alza, spezzando la storia: «Scusate, ma non posso restare seduta mentre parlo, devo alzarmi». Colgo in questa azione impulsiva tutta la forza di un annuncio che proprio non permette staticità, che pretende dinamismo e rimette in piedi. Capisco di colpo che nessun annuncio è veramente tale senza l’urgenza di questo movimento che coinvolge interamente e in prima persona chi lo porta.

Genitori e non

Qualcuno interviene: «Io ho capito! Questa è la storia del figliol prodigo!». «Esatto! Ecco: nella vicenda di questa famiglia - avete sentito - ci sono in realtà tante cose che richiamano anche la nostra esperienza di vita. Possiamo sentirci vicini al figlio grande, o forse a quello più piccolo e chissà, magari ci sentiamo in sintonia con l’esperienza di quel padre che addirittura viene considerato morto. A voi cosa dice questa storia?».
Parte Alfredo: «Certo, un padre vorrebbe sempre i figli accanto… A me questa sembra la storia di un padre “giusto”: capisce che il figlio ha bisogno della sua libertà e gliela lascia…». Maria Rosaria interviene immediatamente e si percepisce che qualcosa la spinge da dentro: «Essere “giusti” coi figli però ha delle conseguenze. Quando avevo cinque anni mia madre mi mise in collegio dalle suore. Là c’era già mia sorella più grande, che però di me era gelosa; io ero cagionevole di salute e mia madre aveva qualche accorgimento in più per me; ma questo a mia sorella non piaceva per niente. In collegio lei mi faceva picchiare dalle sue amiche. Io avevo sempre paura e spesso mi facevo la pipì addosso. Allora le suore mi infilavano le mutande bagnate in testa e mi facevano sfilare davanti a tutte. Io ero terrorizzata e mi ammalavo sempre. Un giorno il dottore disse a mia madre che se non mi portava via dal collegio sarei morta e così mia madre fece. Mia sorella invece rimase là e questo non me l’ha mai perdonato…solo da grandi ci siamo avvicinate!»
È Antonio a parlare ora: «Il più piccolo è sempre voluto più bene, questo è il fatto. Io mi son dovuto addirittura staccare da solo dall’esagerata benevolenza di mia madre. Mi sono accorto che il suo grande affetto mi indeboliva ed ero toccato dall’esperienza di sofferenza di mia sorella, trattata diversamente da me. Poi, da grande, mi sono reso conto che in realtà lei era diventata più forte di me ad affrontare la vita; io invece ero rimasto come chiuso dentro una “bomboniera” e ho dovuto soffrire molto per uscire da lì».
«Scusate… Ma quanti in realtà fra noi, possiamo dire di avere dei “veri” genitori? Chi di noi può dire di aver avuto dei genitori che si siano mai veramente preoccupati per noi?». Le domande di Carlos esplodono come granate nel silenzio generale. «Io vengo da una famiglia ricca, ricchissima. Dall’America Latina i miei mi portavano a Roma o a Milano come se andassimo a prendere un caffè…poi però non mi permettevano di scendere da solo neppure all’angolo della strada dove abitavo. Io dalla “bomboniera” sono scappato che ero solo un ragazzino: volevo vivere per conto mio. In realtà desideravo solo allontanarmi dal disinteresse dei miei genitori, ma questa scelta ha significato crescere da solo. E cosa si può raggiungere se ancora non si sa nulla della vita? È la vita allora che ti piega e ti forma come vuole; ti fa sbagliare tanto e ti espone a rischi enormi. La “non famiglia” può condizionare il futuro tutto intero di una persona. Comunque in questa storia secondo me manca la figura di una madre, se ci fosse stata, chissà come sarebbero andate le cose…».

Il dono della libertà

«Be’ ma qui la madre non c’è perché questa è una storia antica, si riferisce ad un tempo nel quale i padri di famiglia erano anche i veri “padroni” di tutto e di tutti, svolgevano persino il ruolo dei giudici…». È la voce pacata di Maurizio a farsi spazio nel brusio dei commenti «A me questa storia piace tanto. Qui si va oltre la giustizia come la intendiamo noi umani. È un modo di dire perdono: io ti aspetto finché non capisci che hai sbagliato. Ecco perché non credo nell’inferno: credo che Dio cerchi di recuperare tutti…chi sbaglia sarà cercato da Dio all’infinito; il perdono è al di là della giustizia, no?»
Leone aggiunge un po’ di pepe allo scambio, che si riaccende: «Per me il figlio più grande, quello che sta nei campi, ha la coda di paglia quando dice: “sono stato sempre ubbidiente…”, eh già…ma perché ha ubbidito? Voleva davvero star lì a lavorare per amore del papà o invece stava lì per comodità, magari per tornaconto, solo aspettando che il padre morisse per avere i suoi soldi? Il più piccolo in fondo ha rischiato veramente. Anche io sono andato via da casa ma non per sperperare, solo per migliorare la condizione della mia famiglia. Eppure, quando sono ritornato, ancora povero ma “arricchito” della mia esperienza professionale, i miei non mi hanno più voluto. Mi hanno chiuso la porta in faccia!».
«Ah! Però può anche capitare di restare prigionieri dei genitori…A me è successo: io mi son sentito sempre un figlio protetto e imprigionato» dice Gabriele con il fuoco della rabbia negli occhi. «Mia madre mi voleva sempre con sé, addirittura preferiva che io fossi disoccupato: mi faceva sempre sentire “a rimorchio”. Mio padre se ne fregava. Alla fine io mi sono adagiato in questa situazione. La mia vera identità è emersa soltanto quando i miei sono morti. Economicamente avevo molto meno, ma finalmente ero più libero».
«Il gesto del padre viene dal cuore, chiaro no?» dice Tomislaw con il suo italiano un po’ zoppicante «Chissà… magari anche il figlio più grande con il tempo avrà capito cosa significa amare e avrà superato la gelosia verso il fratello». Improvvisamente la discussione si anima incredibilmente e voci opposte prendono forma. C’è chi sostiene il coraggio del fratello piccolo e chi invece giustifica l’indignazione di quello grande. «Scusate, di cosa stiamo parlando? Quello ha letteralmente sputtanato tutti i soldi di famiglia…mentre l’altro si rompeva la schiena nei campi!» dice qualcuno e qualcun altro gli fa eco: «Ma sì d’accordo, però senza fare errori non si può essere virtuosi davvero! Il figlio grande non capisce perché è ancora un figlio “incompleto”!».
In mezzo alle voci concitate e contrastanti una mi cattura; è Maurizio: «Ma non capite quant’è grandioso il gesto del padre? Il Signore ci avrebbe ben potuto far perfetti, anche se poi, secondo me, si sarebbe annoiato da matti. La libertà che ci ha dato è un regalo ben più grande della vita stessa…».
Curioso: si va convinti di annunciare la Parola e si scopre invece che è Lei ad esserci rivelata.