Solitudine che ti riveste di Dio

Nella vita don Lorenzo Milani, sentendosi abbandonato, trovò il vero dialogo con Dio 

di Antonello Ferretti
animatore culturale a Reggio Emilia

 I caratteri distintivi del profeta

Nel 1976, a soli nove anni dalla morte del priore di Barbiana, escono nelle sale cinematografiche italiane ben due film a lui dedicati. Di nessuno dei due resta traccia né in videocassetta né in DVD.

Ho rivisto quello di Alfredo e Ivan Angeli alcuni anni fa in un convegno di studi su don Milani: oggi come oggi inguardabile. Appartiene a quel genere che in quel periodo andava molto forte tra gli intellettuali di sinistra (o coloro che si ritenevano tali), genere che andava sotto il titolo di “film verità” o “film inchiesta”. Lungometraggi estremamente verbosi in cui la storia era un “pretesto per”, le sceneggiature più erano strane meglio era.
Ma una cosa mi sorprese. Sulla scena finale apparve questa scritta: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta».
Se penso a don Lorenzo come profeta subito mi viene da accostarlo ad Amos, Osea, Geremia. Al primo per le sue “invettive” contro i bontemponi ed i ricchi, al secondo per la sua vita intesa come segno e al terzo per la sua solitudine e rapporto tumultuoso con Dio. E tutto senza dimenticare la forte difesa del Dio unico e la intransigenza (tipica del convertito e del neofita) che lo collega direttamente ad Elia.
E del profeta ha vissuto soprattutto la solitudine. Solitudine che ha accompagnato tutta la sua vita, fin dal momento del suo incontro con il vangelo e Gesù Cristo. Don Raffaele Bensi, suo direttore spirituale, così scrive: «Incontrare Cristo, incaponirsi, derubarlo, mangiarlo, fu tutt’uno sino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo; partì subito per l’assoluto senza vie di mezzo, voleva salvarsi e salvare ad ogni costo, trasparente e duro come il diamante doveva subito ferirsi e ferire. E così fu».
E le ferite non tardarono ad arrivare: l’atteggiamento della sua famiglia verso la scelta del seminario, si aggiunga la solitudine in cui si trovò, lui ventenne e con una certa formazione, in mezzo a seminaristi che più tardi chiamerà, quasi con disprezzo, “signorini”. Solitudine legata anche ad un carattere difficile, ostico, presuntuoso e a volte, diciamolo senza paura, sprezzante, ostinato e apparentemente autoreferenziale.

 L’isolamento del prete scomodo

A San Donato di Calenzano, prima sede che lo vide come cappellano, l’unico che lo tenne vicino a sé fu il vecchio canonico Don Pugi, mentre il resto della popolazione e del clero ben pensante (per motivi a volte molto terreni) gli fecero terra bruciata intorno, isolandolo. Ma l’affetto con cui i sandonatesi lo accompagnarono a Barbiana nel dicembre del ‘54 e lo cercarono per lungo tempo mostrano come il suo messaggio fosse andato ben oltre.
Barbiana: il nulla, la solitudine allo stato puro. «A Barbiana da sempre erano tutti contadini, condannati a vivere nella loro solitudine e miseria. Non avevano diritti e per questo considerati inferiori ed ultimi degli ultimi, Sospettavano di tutti, anche del prete che guardavano come nemico al pari degli altri proprietari. Anche il prete aveva il podere col contadino, ed era ritenuto prima padrone, poi fattore ed infine prete». Così Michele Gesualdi nel suo ultimo libro (Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana) descrive il luogo in cui un giovane prete di soli 31 anni venne inviato per farlo tacere per sempre.
E subito fu per lui la solitudine, una solitudine vera. Fu la notte dell’incontro di Giacobbe con l’angelo. Alla fine della lotta don Lorenzo uscì sciancato, ma uomo nuovo, uomo che aveva trovato in sé e in Dio una chiave di risposta al suo vuoto.
Ma non fu sempre facile. E per vincere la solitudine inventò la scuola. Questo fu il motivo umano di fondo che portò alla nascita di quella esperienza pedagogica che l’ha reso famoso in tutto il mondo. Seconda motivazione (tipica del profeta che deve guardare avanti e portare oltre sé) fu che, come lui stesso scrisse: «Dal punto di vista proprio di parroco ho l’incarico di predicare il vangelo. Predicarlo in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano. Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendano l’italiano. Non son capaci di una lingua che non sia quella che serva per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì».

 L’emarginazione motivante

Ma la solitudine, vissuta, agita, combattuta e direi (solo alla fine) motivante, trova riscontro in altre affermazioni del Milani: «Il vescovo non si è visto, nessuno è venuto a trovarmi. Vengono solo i preti scemi. Poi vengono i poveri, abbondantemente, e sono quelli che mi hanno fatto abbandonare tutti voi ed il suicidio. Sono stati i miei confessori, i miei direttori spirituali, il mio Dio (l’altro Dio mi perdoni). D’altra parte non li ho cercati io». Di che suicidio parla? Storicamente non ci è possibile dire se si tratti di una metafora letteraria o l’idea di un suicidio fisico sia affiorata nella mente del Priore, ma certamente il grande senso di solitudine e abbandono qui appare molto forte.
«Nel silenzio e nella solitudine c’è più tempo per parlare con Dio», scrive in una lettera e questa è la seconda faccia della solitudine di Barbiana. L’incontro con Dio, che però (da buon profeta) egli vive in modo reale, concreto, inserendo il suo messaggio nella vita e nel silenzio dei suoi poveri.
Parlando della solitudine di don Lorenzo a Barbiana, uno dei suoi primi alunni così scrive: «Don Lorenzo trovò nell’esilio di Barbiana la povertà e l’emarginazione più profonda, se ne fece carico con dedizione e amore straordinario. Non come opera di carità, ma come impegno di vita volto a combattere le cause che feriscono gli ultimi, perché l’ingiustizia sociale offende Dio e gli uomini. L’elemosina umilia chi la riceve e gratifica chi la elargisce. Chi ama veramente i poveri, invece, si batte ogni giorno per rimuovere le cause che provocano emarginazione sociale e umiliazione».
E anche la autoreferenzialità del suo carattere a Barbiana, nella solitudine e nel silenzio, si trasformò, divenne qualcosa di nuovo sia nella lingua (una lingua semplificata quale quella del suo capolavoro L’obbedienza non è più una virtù) che nel rapportarsi agli altri: più si avvicina alla morte più le sue lettere diventano piene di dolcezza e affetto, da cercare ovviamente sotto parole apparentemente dure.
Oggi, a cinquant’anni dalla sua morte, cosa ci può insegnare la solitudine del priore di Barbiana?
Così si espresse allora padre Ernesto Balducci: «Ha scelto la via della rottura, si è servito del gruppo dei suoi figli come di una via concreta per raggiungere la totale spoliazione di sé, per aggredire, una volta spogliatosi d’ogni egoismo, il mondo degli altri e far nascere nella coscienza di tutti noi, prelati, preti, professori, comunisti, radicali e giornalisti, il piccolo amaro germoglio della vergogna, che è appena la remota premessa di qualcosa di più, della nostra conversione».

Segnaliamo il volume:
MICHELE
GESUALDI
Don Lorenzo Milani.
L’esilio di Barbiana
San Paolo,
Cinisello Balsamo 2016,
pp. 255