Il solitario istituzionale

Nel tentativo di rinnovare la Chiesa il papa non trova appoggio nella struttura ecclesiastica 

di Alberto Melloni
storico, segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII

 Quanto può durare un papato

Papa Francesco si avvia al traguardo del IV anno di pontificato: ci arriva in età avanzata, il che non è né una novità né una regola. Quella soglia Wojtyla la tagliò sessantenne, Roncalli appena più anziano di Bergoglio.

A differenza dei predecessori, però, Francesco ha attribuito a questa durata un significato peculiare, quasi che non gli elettori, ma lui stesso, si fosse assegnato il ruolo di “papa di transizione” che solitamente viene attribuito a pontefici eletti nella loro vecchiaia e dopo tragitti faticosi di tipo istituzionale o disciplinare. In una delle prime fra le moltissime interviste che ha concesso, l’aveva detto apertamente: di avere la sensazione di un papato breve, 4-5 anni.
Civetteria monarchica? Astuzia diversiva per gli avversari interni e esterni? Forse più semplicemente l’abitudine a quella “sapienza del cuore” che non viene dalla semplicioneria ma, ad ascoltare il salterio, proprio dal contare i propri giorni e dal sapere che “la nostra vita arriva a settant’anni: ottanta se ci avanzano le forze. Quasi tutti sono affanno, fatica: passano in fretta e noi ci dileguiamo”.
Quella sapienza ha avuto anche una rilettura molto politica nel 1970, quando Paolo VI tolse l’elettorato ai cardinali di “ingravescentem aetatem”; ed ha generato dentro la compagnia di cui Bergoglio è stato membro una prassi di rinunzia che fu adottata da padre Arrupe prima al culmine di un conflitto con il papato polacco e poi dopo la malattia che lo colpì nel mezzo di quello scontro: e che poi è stata normalizzata, resa quasi fisiologica, dalle dimissioni dei due successori che ad ottant’anni hanno lasciato una funzione pensata a vita.
Diverse da quella di Ratzinger, giunta al vertice di un disordine sistemico e ingovernato che aveva bisogno di un taglio radicale come quello osato da Benedetto XVI, le rinunzie dei generali gesuiti può darsi offrano un “modello” che Francesco potrebbe seguire (ma solo dopo il trapasso del papa tedesco) o evitare, in una libertà che è tutta sua: e che non la colloca all’ordine del giorno. Nonostante le “sensazioni” che il neo-eletto Bergoglio confidava al direttore della “Civiltà Cattolica” nell’estate del 2013.
Davanti a Francesco, infatti, non c’è né il disastro di una chiesa lacerata da una indisciplina che colpiva e passava dagli organi centrali del governo ecclesiastico, né il timore di superare quella soglia di forze dopo la quale, come insegna il caso di Wojtyla, diventa impossibile per il papa decidere della propria rinunzia. Davanti a Francesco c’è altro: c’è una immensa solitudine istituzionale. 

Sul piano umano non è solo

Francesco, infatti, non si può sentire “solo” sul piano psicologico: gode di un consenso caloroso di dimensioni incomparabili rispetto a piccole frange rese visibili solo dalla loro microscopica petulanza. Non si può sentire “solo” sul piano spirituale: giacché la vita spirituale che trasuda dalla sua predicazione del vangelo comprova il gaudio interiore dell’uomo che sperimenta l’amore di Dio. Non è “solo” sul piano esistenziale perché a santa Marta e in Vaticano qualche figlio e qualche amico leale ce l’ha di sicuro.
Ma è solo sul piano istituzionale. La pesantezza istituzionale dei meccanismi del governo lo grava con quisquilie miserabili come quella dei Cavalieri di Malta, usati dal cardinale Burke come strumento di ritorsione contro “Amoris laetitia” e che avrebbero potuto essere o sciolti o disciplinati agendo sul mestatore principe. La complessità della macchina mediatica fa sì che decisioni banalmente meritocratiche – come nominare una bravissima e brillante specialista alla direzione dei Musei Vaticani, una scelta di merito e che non ha nulla a che fare con le donne nella chiesa – diventino una notizia succulenta per i media, mentre atti di importanza suprema – come la restituzione di “potestates” ai vescovi ad esempio in materia di nullità matrimoniali – risultino ostiche alla comunicazione che detesta le tecnicalità.
La solitudine istituzionale riguarda soprattutto il rapporto fra il successore di Pietro e i successori degli Apostoli, i vescovi: che nella loro maggioranza sono freddi verso i bergogliani, a cui fanno pagare qualcosa che al papa non possono rimproverare (come è ad esempio il caso in Italia di mons. Galantino, contro il quale si alzano voci che non avevano mai osato fiatare quando la conferenza episcopale faceva da stampella ad una destra familista e immorale), ma sono rispettosi verso Bergoglio. E spesso apprezzano il suo timbro evangelico nella predicazione, la lettura della Scrittura, la sintonia fra il vangelo annunciato e il vangelo vissuto: ma stentano a trovare il proprio passo e diventano così i primi a dare il cattivo esempio al clero e al popolo. Che guardano il papa con ammirazione, simpatia, fedeltà e talora con la sincera commozione di chi ha pagato prezzi non piccoli per dire nella propria vita un millesimo di quel che Francesco dice o fare un millesimo di quel che Francesco fa come cristiano. 

La passività di certo cattolicesimo

In questa solitudine non mancano infatti i vecchi schemi strumentali: quelli che intestano alla propria esperienza, al proprio carisma, al proprio movimento gesti e parole che hanno una dignità cristiana solo se avvolte dal riserbo dei servi inutili, capaci di essere schivi senza nemmeno accorgersene e di visitare i carcerati senza nemmeno sospettare il senso messianico di quell’incontro. Che corroborano una forma di spettatorialità dei cristiani davanti a Francesco.
Il cui disegno di riforma della chiesa e del papato – la riforma della curia è come il taglio delle unghie dei piedi: necessario, faticoso per chi non è giovane, non particolarmente poetico, e fatalmente destinato ad una periodica iterazione – naufraga appunto su questa passività: la passività di un cristianesimo “progressista” (mi scuso della grossolanità della categorizzazione) che non ha nulla di cui lamentarsi e che davanti alla sfida presente si affanna in distinguo penosi; la passività di un cristianesimo organizzato e associativo, che deve gestire le proprie beghe e i propri conformismi che hanno nostalgia delle pentole del potere di Mizraim; la passività di un cattolicesimo “conservatore” che si scopre d’improvviso eversore e antipapale, pur di non perdere la visibilità di una modernità mediatica su cui si sputa di giorno e con cui si flirta la notte.
Secondo il dettato profetico ed evangelico questa solitudine rende la faccia di Francesco “dura come pietra”: lo rende più duro con se stesso nella sua linea di predicazione e di azione.
Il papa, che ha sedotto gli atei e irritato i bigotti, vive, solitario, la sua vita cristiana e riscopre nella storia la perla del vangelo.