Imparare la solitudine

Sotto la tempesta di relazioni improprie rigeneriamo noi stessi scoprendo il silenzio 

di Maria Giovanna Cereti
clarissa del monastero “San Biagio” di Forlì

Il volto bifronte della solitudine

Immagini che scorrono ogni giorno davanti ai nostri occhi: un bimbo piccolo, da solo, esplora e manipola un oggetto, completamente assorbito dal “gioco”; un artigiano è intento a rifinire un lavoro con cura meticolosa; un monaco è profondamente immerso in preghiera; un appassionato di trekking percorre in solitaria un sentiero fra i monti, fermandosi a tratti a guardare e ascoltare...

Cosa hanno in comune? Si tratta di persone sole che non sono sole: le percepiamo in relazione, raccolte e concentrate in sé stesse e nel contempo aperte al mondo.
Ma vediamo anche altre immagini: un bambino abbandonato a se stesso, con la televisione e una montagna di giocattoli, non ha nessuno con cui interagire; un anziano, nella casa vuota e silenziosa, si trascina stancamente a tirar fuori qualcosa dal frigorifero perché “bisogna pur mangiare anche se non se ne ha voglia”; un ammalato terminale, quando tutti se ne vanno, si ritrova a guardare in faccia l’innominabile realtà: “io sto per morire”; un coniuge abbandonato, insonne, allunga la mano all’altra metà del letto e la trova inesorabilmente vuota.
Solo alcune suggestioni per ricordarci il volto bifronte della solitudine, la sua strutturale ambivalenza: esperienza umana comune, a tratti stupenda possibilità di stare con se stessi, di immergersi nel proprio mondo interiore o di coltivare dimensioni centrali della nostra persona; altre volte percepita come condanna, impossibilità di relazioni desiderate, estraneità a tutto. Vuoto.

 Autismo digitale

L’uomo contemporaneo, quello del mondo liquido dove tutto è in continuo movimento e trasformazione, che la sovrabbondanza di stimoli, voci, impegni tende a sommergere, non è certo in posizione migliore dell’uomo del passato per risolvere questa ambivalenza. Una serie di inedite possibilità tecniche gli permettono di ascoltare vedere parlare scrivere chattare con chiunque in ogni momento. Il ritmo frenetico impresso alle giornate lo fa passare da una attività all’altra, da un luogo all’altro, da un incontro all’altro sempre incalzato da ciò che lo aspetta. Tenendosi sempre occupato finisce per essere incapace di fermarsi. Rimanendo sempre connesso rischia di non essere mai completamente solo.
Ma tutto questo non lo rende automaticamente più capace di relazioni: una espressione singolarmente efficace, come quella di autismo digitale, pone provocatoriamente l’accento proprio su questa possibilità: che l’essere sempre più connessi aumenti – anziché ridurle –le possibilità di isolarsi ciascuno nel proprio bozzolo. Basta salire su un treno e osservare le persone sedute l’una accanto all’altra, ciascuna immersa nello schermo del proprio smartphone: trovarne due che parlino tra loro, anche tra quelle che viaggiano insieme, è cosa davvero rara. Eppure parliamo sempre con grande enfasi di dialogo e di comunicazione !
Giungiamo qui a una scoperta importante: occorre ben distinguere fra solitudine e isolamento. Quest’ultimo nega la possibilità di apertura all’altro (vissuta come minaccia, fatica, alterazione) e quindi nega il desiderio più profondo che ci abita, che è sempre desiderio dell’altro. Insomma, l’isolamento nega la relazione. Mentre la solitudine afferma la relazione, anche quando l’altro è fisicamente assente: relazione con l’altro in cui mi imbatto, con l’altro che giace nella più intima profondità di me, con l’Altro per eccellenza che è Dio.
Chi può vivere la solitudine? Chi ha imparato, dalle relazioni concretamente vissute, che la presenza dell’altro non è fusione dove l’individualità va perduta, e che la sua assenza non è vuoto ed estraneità mortifera ma può diventare preparazione all’incontro. Chi ha scoperto che tra gli estremi di fusione e abbandono gli è possibile stare con se stesso: e, in questo, ha imparato ad accogliere e ad amare l’unicità irripetibile del suo volto. Scriveva Montaigne: «Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi».
Appunto, questo non è automatico, anzi è frutto di un allenamento anche faticoso. Ma se evitiamo sistematicamente l’apprendistato della solitudine, se ne esoneriamo sempre i nostri ragazzi, corriamo il rischio di incrementare le possibilità di isolamento. Imparare ad essere soli è accettare di essere diversi dagli altri senza per questo avere l’impressione di smettere di esistere per gli altri.
Diventa ora possibile anche valutare le tante “compensazioni” della solitudine, cioè tutte quelle modalità che utilizziamo per attraversare l’essere soli: sono costruttive quelle che stanno nell’orizzonte della relazione, che fanno uscire l’io dall’auto-referenzialità e lo aprono al mondo, agli altri, alle cose: non necessariamente cercando compagnia! Leggere con passione partecipe un libro o ascoltare una registrazione o coltivare piante sul balcone può essere davvero uno stare-in-relazione. Per non parlare della preghiera.
Al contrario, ci sono strategie che all’apparenza riducono la solitudine, ma in realtà incrementano l’isolamento, l’auto-centratura dell’io: l’attivismo esasperato di chi non può mai fermarsi, certe forme di accudimento compulsivo di chi non può fare a meno di prendersi carico di tutto e di tutti (anche senza esserne richiesto!), il continuo bisogno di stordirsi ne sono eloquente testimonianza.
Che cosa favorisce l’apprendistato alla solitudine? 
Prima di tutto la capacità di fermarsi, di porre una pausa intenzionale nel flusso continuo di attività e di stimoli che caratterizza molte nostre giornate; chi parla sempre, si muove sempre e agisce sempre non è mai con se stesso. 

Come è solo il bambino

Poi il fare silenzio: l’animo di chi parla continuamente a poco a poco si impoverisce; il sentimento che si traduce sempre in parole, muore; anche la parola, per attingere ed esprimere la verità, ha bisogno di nascere dalla profondità del silenzio e non da un continuo sottofondo di rumore.
E ancora, il coltivare la vita interiore: chi non lo fa, finisce per essere senza un centro, per non elaborare realmente nulla, e per rispondere a tutto in termini di reazione immediata. Di profondità interiore c’è bisogno per interrogarsi, per comprendere, per decidere: altrimenti si è solo informati su tutto, ci si esprime con luoghi comuni e si passa subito ad altro. È così facile confondere il pensiero con le chiacchiere, il servizio con la frenesia faccendiera, l’informazione con la comprensione!
Forse, se avremo la pazienza di lavorare un po’ su noi stessi, le situazioni di solitudine oggettiva che la vita non mancherà di offrirci ci appariranno meno come circostanze avverse e sapremo coglierle come opportunità di vita buona, possibilità di far risplendere l’umano in noi.
Ce lo auguriamo con le parole di Rainer Maria Rilke, «a questo bisogna arrivare: essere soli come è solo il bambino».