Solitudine è

Semiannegati di bulimia discorsiva, dobbiamo cercare la leggerezza di una beata solitudine 

di Chiara Francesca Lacchini
badessa del monastero delle clarisse cappuccine di Fiera di Primiero

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.

(Emily Dickinson)

 La paura di stare con se stesso

Solitudine: parola amara che lacera l’anima e riempie il cuore di paura. È come un clima gelido che può illanguidire le energie della volontà, oscurare la luce dell’intelligenza, spegnere l’ottimismo del cuore. La solitudine non è soltanto mancanza di compagnia, non è isolamento esteriore, è soprattutto vuoto e abbandono interiore.

All’interno della civiltà contemporanea, tanto ricca di forme associative, questa situazione interiore sembra essere molto diffusa. L’uomo, in preda a questo vuoto, vive la paura di stare con se stesso e va in cerca di un sedativo, di una distrazione, di un’evasione che riesca ad appagarlo. La nostra epoca ci offre molta bellezza, ma talvolta sembra essere un po’ rumorosa, senza armonia, senza silenzi né suoni; povera di “parole”, ricca di “voci”. Molto sembra urlato, comprese le emozioni. Il privato è gettato ai quattro venti e, con la connivenza pruriginosa dei mezzi di comunicazione, gli opinionisti sono sempre pronti a dire niente di tutto, generando rumore. Eppure non mancano segni contrari nella direzione di un apprezzamento della solitudine e del silenzio.
Pochi anni fa un regista passò quattro mesi presso il monastero della Grande Chartreuse nelle Alpi Francesi, facendo di quella esperienza un film e aprendo al grande pubblico le porte di un modo di vivere silenzio e solitudine che solo una infinitesima parte dell’umanità vive. Il pubblico rimase per 162 minuti incollato al video, senza che nessuna parola fosse pronunciata. Il film ebbe un certo successo. Un senso di autenticità, o un semplice bisogno di isolamento? E rimase una domanda aperta: si può essere solitari e felici?
La poesia della Dickinson posta in apertura ci suggerisce, con il linguaggio lieve che solo la poetica riesce ad avere, che parlare di solitudine oltre ad essere una questione di spazi e di distanze, di silenzi e di assenze, è una questione di incontri. Gli incontri presuppongono una relazione e una relazione può renderci felici o affaticati, sereni o ansiosi, gioiosi o tristi. San Bernardo ha potuto dire: «O beata solitudine, mia sola beatitudine!». E noi?

I paradossi dell’amore

La nostra esperienza è nei solchi di quella bella battaglia della fede di cui ci parla l’apostolo Paolo e in quel campo vi sono momenti in cui facciamo di tutto per fuggire la solitudine e il silenzio; li sentiamo quale esigenza insopprimibile del nostro essere e ne abbiamo nostalgia; ne abbiamo paura e li temiamo finendo per essere ridicoli, come solo noi esseri umani sappiamo essere. Eppure percepiamo anche che ogni vero incontro fiorisce nei solchi della solitudine e ogni parola autentica è celata nel seme del silenzio.
Non si tratta di andarsi a cercare spazi di solitudine, perché questa esperienza è legata ai momenti della vita, che ne siamo coscienti o meno. Per quanto cerchiamo di soffocarla in una bulimia discorsiva, ci si presenta innanzi talvolta come semplice assenza e vuoto, e altre volte come presenza che ci attrae e ci affascina. Questo dice tutta la sua ambiguità: solitudine è quella delle tombe, che nascondono il mistero della morte; è quella della vertigine di fronte a ciò che si comprende essere vero e non si ha voce per esprimerlo; è timore e freddo di fronte alla sofferenza, al dolore profondo, ma può essere anche calore che scalda la vita nel misterioso incontro con le profondità del cuore, clima che precede le grandi decisioni di cui è costellato il nostro percorso.
Il ritirarsi in se stessi però non è ancora solitudine, e il banco di prova del saper stare soli lo abbiamo nell’incontro con noi stessi, con gli altri, con il mondo. Silenzio e solitudine sono via di accesso alla conoscenza, che richiede sempre intensità e raccoglimento. È il paradosso dell’amore: per conoscere occorre fermarsi ed attendere, tacere ed ascoltare, ritrarsi e fare spazio. Perché incontrare l’altro significa accoglierlo con la sua irriducibile originalità senza imbrigliarlo nei nostri pregiudizi: solo l’amore silenzioso e discreto riesce a custodire e valorizzare il segreto senza violarne il cuore. 

Indispensabile per star bene in compagnia

Nel rapporto con le cose il silenzio resta ancora una volta la cifra del rispetto e, come tale, allontana ogni tentazione di curiosità morbosa per lasciare spazio allo stupore e dare origine alla domanda, in virtù della quale comprendiamo che ogni cosa ordinaria ha un’essenza misteriosa, un senso nascosto, un significato inaspettato. Senza solitudine e silenzio non può esserci conoscenza intelligente, ma solo cattura della realtà e sua riduzione. E il rischio di cedere alle convenzioni, accontentandosi della banalità, di dare tutto per scontato rinunciando all’entusiasmo della sorpresa. Eppure sul punto di incontrarci con noi stessi, non di rado preferiamo cambiare strada ed entrare nella comoda difesa delle nostre paure. Ogni occasione di distrazione viene prontamente colta, perché resistere alla tentazione di rimandare l’appuntamento con la nostra natura e con la responsabilità per affrontare il reale è difficile; ma è innegabile che “dove c’è persona c’è silenzio” (M. F. SCIACCA, Come si vince a Waterloo, Marzorati, Milano 1963).
Alcuni compagni di viaggio nel cammino della fede, i cosiddetti “padri del deserto”, ci hanno insegnato che la scoperta della solitudine può diventare una fonte di salvezza. Abbracciare la solitudine come coraggio di incontrare se stessi e di rimanere nel deserto del proprio cuore significa conoscere che cosa pensi, capire come stai e infine accettare gli altri senza il bisogno di difendere te stesso. Nella fatica della solitudine possiamo rischiare di essere quello che siamo; nell'eco prodotta dal silenzio possiamo rischiare di porci davanti agli altri come essi sono; e nella comunione della quiete possiamo accogliere gli altri nella loro interezza, nella loro dimensione irriducibile, al di là di quello che possiamo comprendere, sopportare o semplicemente sfruttare perché, come diceva Giorgio Gaber: «La solitudine non è mica una follia, è indispensabile per star bene in compagnia».