Acrobazie di parole

Con umiltà Francesco accetta di rimanere solo, attento a mantenere unita la fraternità 

di Fabrizio Zaccarini
vicemaestro dei postulanti cappuccini a Lendinara

 Sottigliezze del lessico

Problema: come evitare che si senta abbandonato a sé stesso l’amico e fratello a cui devi scrivere di non appoggiarsi a te per fare scelte che competono a lui?
Soluzione: il tuo destinatario dovrà sentire che il legame che vi unisce non è in pericolo.

Procedimento: due mosse e un colpo di genio.
Prima mossa: all’inizio della lettera prima del tuo nome metti l’aggettivo possessivo “tuo”. Tu, il tuo destinatario e altri con voi e come voi ancora appartenete l’uno all’altro.
Seconda mossa: affermi che tu, questo richiamo a responsabilità personale, lo fai a lui, «come una madre» lo farebbe al figlio. Una madre che di quel figlio si fida in modo robusto, visto che scrivi, «in qualunque maniera ti sembra meglio di piacere al Signore Dio e di seguire le sue orme e la sua povertà, fatelo con la benedizione del Signore Dio e con la mia obbedienza». È venuto il momento per te, fratello mio, di confrontarti più con Dio che con me.
Colpo di genio: in bellissima e palese contraddizione con ciò che precede, dopo aver rasato via l’inchiostro di una prima ipotesi di chiusura, concludi così: «se ti è necessario per il bene della tua anima, per averne altra consolazione, e vuoi o Leone, venire da me, vieni!». Svelato il destinatario della lettera, frate Leone (cfr. FF 249-250), svelato anche il mittente, frate Francesco e la natura del suo genio. Nonostante la tensione evidente tra il testo della lettera, «non c’è bisogno che tu venga da me per consigliarti», e la nuova e definitiva conclusione, «vieni!», ciò che precede non viene cancellato. Evitato ogni possibile appiglio per un’interpretazione tranciante il legame fraterno che unisce mittente e destinatario, il richiamo a responsabilità personale di cui ciascuno da solo, per quanto in solidarietà con altri, deve portare il peso, restava dunque pertinente agli occhi di Francesco, ma non impediva di dire al fratello in difficoltà: “se vuoi… vieni!”
La coniugazione di atteggiamenti è di una ricchezza così complessa, che penna e cuore di pochi altri (o nessuno?) avrebbero saputo avventurarsi sulla stessa fune, esibendosi nella prova acrobatica di un equilibrio altrettanto acrobatico e libero. Come può Francesco essere così fermamente deciso nel rispetto della responsabilità altrui e, allo stesso tempo, pronto e agile ad assumere tenera e materna accoglienza del fratello nelle sue fatiche e fragilità?

 La trappola della regola

Quando Francesco ha scritto questa lettera conosceva bene la forza lacerante della solitudine. Siamo ormai verso i suoi ultimi anni di vita, la tenaglia di una doppia pressione lo tiene in trappola. I fratelli della prima ora sono pieni di rabbia verso gli ultimi, numerosi, arrivati. Questi, soprattutto se guardiani o custodi, ritengono che la regola, elaborata da Francesco e dalla fraternità riunita annualmente in capitolo nell’arco del decennio 1210-1221 e conosciuta come “non bollata” perché mai approvata da Roma, sia un testo per niente adatto a fare da riferimento normativo alle scelte delle singole fraternità e dell’ordine nel suo insieme. Perciò essi, tramite il cardinale Ugolino, chiedono a Francesco di scegliere come regola del loro ordine una delle regole monastiche antiche.
La risposta di Francesco è tanto chiara quanto dura: «Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare per la via dell’umiltà e mi ha mostrato la via della semplicità. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole, né quella di sant'Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha detto che questo egli voleva: che io fossi nel mondo un “novello pazzo”: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza. Io ho fiducia nei castaldi del Signore, di cui si servirà per punirvi. Allora, volenti o nolenti, farete ritorno con gran vergogna alla vostra vocazione» (FF 1564).

 Novello pazzo

L’autodefinizione, “novello pazzo”, un vero programma scientifico di permanente uscita da sé, fa pensare che queste parole siano state pronunciate, così come le leggiamo, dallo stesso Francesco. Logica vorrebbe che esse conducano l’ordine a una prematura rottura. Da una parte Francesco, i compagni della prima ora, e i loro seguaci, dall’altra coloro che non si riconoscevano nella Regola non bollata. Logica vorrebbe… ma Francesco, “novello pazzo”, vuole tutt’altro. Per non assumere in nulla un atteggiamento paternalistico/padronale, non impone a nessuno la sua volontà, non interrompe il funambolico esercizio della maternità fraterna, per accomodarsi a piano terra, tra la folla, dove ognuno cerca di prevalere sull’altro con la forza del potere contrapposto a potere.
Si lascia aiutare a scrivere una nuova regola (sarà conosciuta come “bollata” perché approvata da papa Onorio III) di natura più chiaramente giuridico/normativa, che salvi l’essenziale evangelico anche a costo di perdere gran parte della straordinaria densità spirituale dell’altra. Così l’ordine evita scissioni premature e si apre al futuro, senza per questo chiudere al passato, cioè alla sua origine carismatica. Per trasmettere la sua difficile eredità, Francesco fa testamento raccontando la sua conversione e la vita della prima fraternità.
Per arrivare a queste decisioni deve attraversare il deserto di una duplice solitudine. Non ha fatto ciò che chiedono i primi compagni, non fa nemmeno quanto chiedono i suoi frati più intellettualmente preparati. Francesco è solo tra i suoi fratelli. Perso l’ancoraggio di ogni relazione umana, si sente abbandonato da Dio. E se la sua storia fosse semplicemente il frutto avvelenato di una fede malata? Se la sua follia non fosse affatto venuta da Dio? «Era tanto afflitto nella mente e nel corpo, che molte volte si sottraeva alla compagnia dei fratelli, poiché non era in grado di mostrarsi loro lieto come soleva» (FF 1798).
Liliana Cavani restituisce magistralmente questo stato d’animo con un Francesco (Mickey Rourke) piangente e brutalmente stravolto che grida “parlami!” fino allo sfinimento e oltre. Quel Dio che lo aveva chiamato, Deus mihi dixit, lo stesso Dio, infine risponde e gli parla nella solitudine dura della Verna, nel concreto della sua carne stigmatizzata. Il Cristo solo, tradito, rinnegato, innalzato nudo e moribondo su un patibolo, una volta riscritto nel corpo di Francesco diventa la chiave d’accesso al mistero di quegli anni apparentemente senza senso. Lo Spirito ha definitivamente sconfitto ogni tentazione narcisistica ricavandosi in lui uno spazio di autentica accoglienza degli altri e dell’Altro nella loro irriducibile alterità. Così Francesco crocifisso con il Crocifisso, risorto con il Risorto, avendo accolto la Parola, divenuto fratello e madre, può esplodere nella gioia estatica della lode del Dio altissimo e tre volte santo che gli fa ripetere senza sosta «Tu sei bellezza, tu sei umiltà, tu sei mansuetudine, tu sei…, tu sei… tu sei» (FF 261).
Per Francesco ora Leone è il fratello che deve diventare responsabile di sé, ma anche un figlio da custodire in viscere di misericordia. Leone, da parte sua, salvò da un probabile oblio le parole della lettera a lui indirizzata e della preghiera estatica di Francesco. In esse riconobbe un fremito di vita rigenerante, perciò continuò a portare, fino alla morte, quei biglietti sul suo stesso corpo, tra il cuore e il ventre.