Urlando contro il cielo

Giobbe mantiene la sua integrità, rifiutando l’idea delle sventure come maledizione di Dio 

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

 Il mal di vivere di Giobbe

La solitudine è un’esperienza di pace e di favorevole occasione di crescita umana e spirituale, quando è scelta liberamente e quando nel cuore si porta con gratitudine la relazione con Dio e con gli altri. Ma quando è conseguenza dell’abbandono, dell’indifferenza e del disprezzo, diventa una prova insopportabile. Particolarmente tragica è la solitudine nel momento della malattia e della sofferenza.

Giobbe ha perso tutto, i beni, i figli e anche la salute. La piaga che lo ha colpito è forse sospettata di essere lebbra. Per questo deve abbandonare il villaggio e sedersi ad una certa distanza in mezzo all’immondezzaio. Oltre la sofferenza morale e il male fisico, ecco l’emarginazione. Giobbe ha davvero perso tutto. Si chiude nel silenzio e vede il suo orizzonte restringersi in maniera irrimediabile. Pensa a sé in piccolo: un coccio per grattarsi diventa una grande soddisfazione.
Questa solitudine coatta è tuttavia interrotta da due eventi, uno negativo l’altro positivo. Ad aggravare la sofferenza di Giobbe, interviene la moglie. Un intervento sorprendente in questo momento. Ci si sarebbe aspettati la sua reazione dopo la prima serie di prove, quando erano morti i sette figli e le tre figlie. Invece, si intromette ora per invitare Giobbe alla ribellione: «Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!» (Gb 2,9). Nella storia dell’interpretazione del libro di Giobbe, questa sua reazione ha dato occasione ad una ridda di opinioni: secondo alcuni è una prova supplementare per Giobbe! Sant’Agostino la definisce diaboli adiutrix (aiuto del diavolo); san Giovanni Crisostomo la considera la «peggior piaga per Giobbe». Sta di fatto che compie una frattura insanabile fra marito e moglie e Giobbe prende coscienza che deve continuare la sua avventura di sofferenza senza avere accanto la sua compagna di vita.
Inaspettatamente, però, accade il miracolo dell’amicizia, che può liberare Giobbe dalla morsa pericolosa della solitudine: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui ... e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo» (Gb 2,11). Non si esagera mai abbastanza nel sottolineare il significato dell’ultima parte del versetto: un vero e proprio manifesto dell’amicizia. Tre uomini si accordano, e questo è già straordinario. Poi decidono le loro intenzioni per la visita all’amico: condividere il suo dolore e consolarlo: di fronte al sofferente non possono esserci disposizioni migliori. I tre amici attuano tutto questo sedendosi per terra ad una certa distanza, in segno di rispetto, e rimanendo in silenzio per sette giorni e sette notti. Nella trama del libro è davvero un’oasi d’amicizia. 

Risposte di fede nell’esperienza umana

Infatti, ben presto i tre amici si trasformeranno in accusatori di Giobbe. Mentre egli protesta la propria innocenza di fronte a loro e di fronte a Dio, essi lo colpevolizzano: se è in quelle condizioni, è per colpa dei propri peccati, si converta e Dio cambierà la sua sorte. I tre si fanno difensori di Dio, ribadendo con forza la convinzione di fede tradizionale che Dio punisce immancabilmente i colpevoli, non gli innocenti, anzi premia costoro con la sua benedizione. Ma Giobbe rifiuta decisamente questa loro conclusione. Pensa, invece, che l’agire di Dio sia misterioso e ci sia spazio per la ricerca di spiegazioni differenti, anche se il percorso di questa ricerca può implicare dubbi, contestazioni, ribellioni. È convinto che le risposte della fede non possono essere al di là dell’esperienza umana. Se la tradizione religiosa ha racchiuso le verità di fede in formule che non corrispondono al vissuto umano, quelle formule devono essere riviste.
E comunque, Giobbe non è d’accordo con l’atteggiamento assunto dagli amici: abbandonare lui per farsi difensori di Dio. Egli è convinto che «a chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici,
anche se ha abbandonato il timore di Dio» (Gb 6,14). Dio sa difendersi da solo, da qualsiasi attacco. È l’uomo che ha bisogno di amicizia, di comprensione e di vicinanza. Il suo grido di protesta spesso non è altro che una richiesta di amore, che lo faccia uscire dalla solitudine in cui la sofferenza lo sta spingendo.
Seduto nell’immondezzaio fuori del villaggio, Giobbe si sente abbandonato anche da parenti, servi, conoscenti: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. Sono scomparsi vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, sono un forestiero ai loro occhi (Gb 19,13-15). Subisce questa sorte proprio lui che aveva fatto della generosità il suo stile di vita: «Soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità. Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto (Gb 29,12-16). Ma Giobbe non soccombe neanche di fronte a questa evidente ingiustizia. Inoltre, ora che è stato ristabilito in salute, in discendenza e in beni «tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo; banchettarono con lui in casa sua, condivisero il suo dolore e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui, e ognuno gli regalò una somma di denaro e un anello d’oro» (Gb 42,11). Una situazione questa che fa spontaneamente venire in mente l’adagio: «Quand’ero Enea, nessun mi conoscea. Or che son Pio, tutti mi chiaman zio», riferito a Enea Silvio Piccolomini divenuto papa Pio II.
L’abbandono, infine, che maggiormente lacera il cuore di Giobbe è senz’altro quello che sperimenta da parte di Dio: «Io grido a te, ma tu non mi rispondi» (Gb 30,20). Con profonda nostalgia ricorda «quando l’Onnipotente stava ancora con me» (Gb 29,5). E con appelli accorati vuol suscitare la stessa nostalgia in Dio: «Ben presto giacerò nella polvere e, se mi cercherai, io non ci sarò!» (Gb 7,21).

Il desiderio più grande

Tutta questa solitudine, se provoca in Giobbe la stanchezza di vivere («Io sono stanco della mia vita!», Gb 10,1), mai gli fa prendere in considerazione l’idea del suicidio. Anzi, la morte è avvertita come ostacolo insormontabile al desiderio più grande: l’incontro con Dio per poter dimostrare la propria innocenza e non sentirsi più colpevolizzato. Giobbe è alla ricerca di qualcuno – un arbitro, un testimone, un difensore – che faciliti la sua riabilitazione agli occhi di Dio. È la speranza che lo tiene in vita. E alla fine comprende che solo Dio può assolvere quel compito. Il Dio che lui aveva creduto suo aguzzino e suo nemico è in realtà colui che lo libera dal suo mal di vivere. E nell’incontro con Dio e nella relazione di amicizia riannodata Giobbe riconosce di essere stato liberato dalla sua solitudine esistenziale: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5).