La pace ha bisogno di tempo
Intervento di fr. Serge Mbremandji, superiore della custodia generalizia del Ciad-Centrafrica
Crisi senza precedenti
La Repubblica Centrafricana si estende su una superficie di 623.000 kmq e confina con il Camerun, la Repubblica del Congo, la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan, il Sudan del sud e il Ciad.
La storia politica di questo paese, dopo l’indipendenza nel 1960, è caratterizzata da alti e bassi, con conseguente instabilità sfavorevole allo sviluppo. Nel 2012 dei gruppi armati venuti da Ciad e Sudan, ai quali si sono uniti dei musulmani del nord del Centrafrica, hanno formato un’unica banda di ribelli, una coalizione chiamata Seleka con a capo “Michel” Djotodia, che entrò nella capitale Bangui il 24 marzo 2013, dove deposero il presidente François Bozizé e Djotodia si autoproclamò a capo della Repubblica.
Dopo questo colpo di stato, il paese ha vissuto una crisi senza precedenti, ritmata da sevizie, violenze e abusi di ogni genere compiuti dai ribelli Seleka e dalle milizie anti-Balaka. Questi abusi contro i civili hanno causato migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati.
Il peso del conflitto anche sulle missioni
La situazione di conflitto che persiste da anni, trova le sue cause in una realtà socioeconomica difficile, che si manifesta nella fragilità delle istituzioni statali, nel fallimento degli sforzi di democratizzazione, nello sfruttamento e nella strumentalizzazione dei vari gruppi etnici, nella cattiva gestione delle risorse del sottosuolo, nella proliferazione delle armi leggere e di gruppi armati, nella mancanza di dialogo e di cooperazione tra il potere e l’opposizione, nei salari da fame e nel mancato pagamento mensile degli stipendi, nella povertà e nella miseria.
Ognuno di questi fattori è stato una causa indiscutibile di conflitto. Oggi il Centrafrica si presenta come un paese ancora politicamente instabile, economicamente debole e in cui il livello di insicurezza, nelle aree occupate dall’ex Seleka, rimane preoccupante.
In questi difficili momenti, tutte le nostre fraternità sono state colpite in un modo o nell’altro e a vari livelli: le nostre case di Gofo, di Bocaranga e di Ngaoundaye sono state attaccate, mitragliate, saccheggiate e i frati sono dovuti fuggire e rifugiarsi per alcuni giorni nella boscaglia. Molti beni delle Missioni sono stati rubati: automobili, motocicli, computer, soldi, impianti solari, generatori e mobili. Diverse cappelle e scuole sono state seriamente danneggiate.
Tutte le fraternità hanno ospitato per diverse settimane migliaia di sfollati, con la fraternità di Bimbo che accoglie ancora oggi circa 20 famiglie. Noi frati siamo rimasti solidali con la popolazione inerme; abbiamo cercato di mantenere il nostro impegno in vari servizi a favore delle persone in difficoltà, sia nei nostri centri parrocchiali che nei nostri settori di "brousse".
La visita del Papa
Papa Francesco ha voluto ad ogni costo compiere il suo viaggio in Repubblica Centrafricana, come “pellegrino di pace e di riconciliazione”. Un gesto molto forte è stato l’apertura della Porta Santa della Cattedrale di Bangui, che ha segnato l’inizio del Giubileo della Misericordia, dieci giorni prima che a Roma. Con questo atto, il Papa ha voluto avviare in Centrafrica un periodo di perdono. «La pace senza perdono non è possibile», ha ricordato, invitando i centrafricani a gettare l’ascia di guerra e a perdonarsi a vicenda. A Bangui, capitale spirituale del mondo, ha esortato i fedeli a premunirsi «contro la tentazione di vendetta e contro la spirale di violenze».
Per unire parole e azioni, il Santo Padre si è recato alla moschea centrale nel quartiere di PK5 (luogo di preghiera musulmano, molto simbolico dato che è l’ultimo quartiere di Bangui dove vivono ancora musulmani e cristiani), per esortare alla riconciliazione.
La visita del Papa è stata il punto di partenza verso la pace, la molla che ha messo in moto il processo di pace. Le parole possono essere diverse, ma le speranze per la pace e la riconciliazione restano le stesse.
La società centrafricana resta polarizzata, tra i musulmani che si considerano discriminati, e la maggioranza cristiana che sostiene di essere stata invasa da combattenti stranieri con la complicità di islamici locali. Come uscire da questa situazione inestricabile di odio? Durante la visita del Papa, i musulmani della capitale sono usciti dal loro nascondiglio per visitare i quartieri che ritenevano a loro ostili e sono poi ritornati tranquillamente alle loro case. Tutti dicono che dobbiamo fare sforzi per conoscerci e fraternizzare: solo così il Paese potrà rialzarsi. L’imam Kobine Layama, presidente della Comunità islamica cita questo proverbio per superare le nostre divisioni e vivere insieme: «I denti possono mordere la lingua, ma la lingua e i denti sono condannati a vivere insieme».
Certamente la visita del Papa resterà impressa nella memoria, ma il suo messaggio sarà ascoltato e messo in pratica? Certo non si farà tutto in un giorno perché le ferite restano ancora aperte e si chiuderanno progressivamente, poco a poco. La pace ha bisogno di tempo.