LA RELIGIONE DIETRO LE SBARRE 

Messaggero Cappuccino si mette in ascolto della periferia: il tema di ogni numero sarà rivisto dalla Redazione di “Ne vale la pena”, costituita da volontari del Centro Poggeschi per il carcere e da persone che il carcere della Dozza (periferia di Bologna) lo sperimentano da dentro perché chiamate dalla giustizia retributiva a espiare con un tempo di detenzione il reato di cui sono accusati. Stavolta ci chiediamo che guadagno c’è nella fede, se crediamo per questo guadagno, oppure…
Seguirà “Una pagina di vangelo al tè delle tre” a cura della Caritas di Bologna che i lettori già da un anno conoscono e seguono con vivo interesse.

Cosa c’è dietro un cielo di stelle?

Voci in ricerca dal carcere 

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Aggrapparsi a qualcosa

Qui all’interno della casa circondariale Dozza noto un numero elevato di “redenti temporanei”, ovvero persone di diverse etnie e religioni che penso che in libertà dedicassero al culto massimo 15/20 minuti all’anno, mentre qui in carcere si dedicano anima e corpo alle varie funzioni.


Non che non creda alla redenzione, ma mi sembra che questi eccessi liturgici servano molto di più come appiglio per andare avanti piuttosto che costituire una vera conversione alla fede, che a mio parere necessiterebbe di un percorso personale più approfondito e meno legato alla particolare situazione in cui ci troviamo a vivere. Questo è ciò che sento e che esprimo come punto di vista personale. Quindi, per carità, liberi tutti, almeno di pregare come e quando si vuole!!!

Francesco Panzavolta

 Non è facile credere a un Dio di cui non vediamo il volto. Per questo abbiamo bisogno di raffigurarlo come una colomba, o anche come una nuvola, oppure come qualsiasi altra creatura.
Ho vissuto, da ragazzo, in un Istituto di Salesiani, dove ho potuto andare a scuola ed imparare il mestiere di falegname. Un giorno fui chiamato dal responsabile della struttura, che mi chiese se ero pronto a fare un cammino per diventare prete. Non gli risposi, perché rimasi molto spiazzato dalla proposta, e gli chiesi un po’ di tempo per pensarci. Dopo diversi giorni gli dissi che non me la sentivo, convinto di non sentire la vocazione necessaria per fare una scelta così importante. Comunque, anche fuori dal carcere ho sempre cercato di frequentare le parrocchie dei luoghi dove ho vissuto, perché sono sempre stato attirato dagli incontri di approfondimento della Parola di Dio, questo Dio che ci ha mandato suo Figlio proprio perché potessimo comprendere meglio da Lui, fatto Uomo, ciò che da sempre ha voluto dire all’uomo. Eppure non tutti credono. Eppure è difficile credere. Eppure i cristiani sono stati perseguitati subito dopo la morte di Gesù, e lo sono ancora in tante parti del mondo. E questo non me lo spiego.
Come non mi spiego come mai ci sono tante religioni, come mai gli uomini hanno tante fedi diverse. Per quanto mi riguarda faccio fatica a credere. Qualcuno potrebbe dirmi che i miracoli di cui siamo a conoscenza dovrebbero essere un elemento decisivo per avere fede. Ma per me non è questo che conta. Faccio fatica a credere, ma anche a non credere. Sento che proprio in una situazione di debolezza cresce il bisogno di aggrapparmi a qualcosa che mi dia speranza. Questo è il sentimento che vivo in questa fase della mia vita. Qui, chiuso fra queste quattro mura, desidero capire sempre di più il vangelo e, in un certo senso, adesso è più facile di prima, quando per la vita frenetica che facevo non era facile trovare tempo.

Filippo Milazzo

 L’atto di credere affonda nella parte più profonda della coscienza umana e si estrinseca in ogni individuo nelle modalità più diversificate, intrecciato all’affiorare del dubbio. La religione (legame con la divinità) è l’insieme delle credenze e degli atti di culto che legano la vita di un individuo o di una comunità con ciò che ritiene un ordine superiore divino legando a questo l’assunzione di codici comportamentali virtuosi.
Va fatto uno sforzo laico di discernimento in merito per disgiungere dal trascendente la categoria dei valori (bene e male); un patrimonio che appartiene a tutti e non solo ai portatori di fede. In questo contesto, illuminante è il Libro di Giobbe e, in particolare, i riferimenti alla giustizia retributiva. Giobbe con la sua fede incrollabile evidenzia il limite di quel tipo di giustizia.
Il carcere e la privazione della libertà sono di per sé stesse un evento traumatico e di cesura con il mondo esterno. Ognuno entra in carcere con il proprio bagaglio di esperienze di vissuto e con i propri convincimenti culturali e di valori di vita. Nel carcere “chiuso”, paradossalmente ed improvvisamente, tutto diventa amplificato e tutto può entrare in crisi rispetto agli equilibri costruiti all’esterno. Le sofferenze fisiche per la privazione della libertà si sommano a quelle psicologiche; una sorta di “carcerazione della mente”, spesso più grave per gli effetti, e poco o nulla riconosciuta e considerata. C’è chi parla di “carcere immateriale” ed è, forse, l’aspetto più grave ed inumano del sistema penitenziario, pienamente in contrasto con i dettami costituzionali che vietano qualsiasi danno alla salute psicofisica del detenuto che deve essere orientata al recupero ed alla riabilitazione. In questa situazione di grave coercizione psichica i meccanismi di reazione e di difesa sono tanti e diversificati in rapporto alla personalità e al vissuto di ogni detenuto. Non è scontato che si trovi una via d’uscita. Da questo baratro una possibile strada per la risalita può essere la messa in campo di una “resettazione” del proprio vissuto con un doloroso processo di rielaborazione del proprio passato in cui anche le domande sui “grandi sistemi” si ripropongono con forza, portando a conferme e sconfessioni dei propri convincimenti consolidati.
Certo, il vissuto della religiosità qui presenta aspetti che esulano da una spiritualità autentica. Da una parte la religione è utilizzata ed esibita per riaffermare un’appartenenza di gruppo; dall’altra l’atto di fede è vissuto in un modo paradossalmente superstizioso ed esclusivamente legato alla ritualità esteriore, frutto di un analfabetismo religioso diffuso e trasversale alle diverse confessioni. Altri all’interno del carcere trovano nella fede una sorta di sublimazione e un rafforzamento della loro spiritualità.
Un filo, in modo più o meno consapevole, lega tutti in un anelito di ricerca di ragioni di vita, di ricomposizione dei valori e di speranza che ognuno cerca di costruire sulla base della propria personalità. Una sorta di “religione laica” sulla quale fare leva per favorire la riabilitazione, la possibilità di riscatto e di liberazione. A questo si dovrebbero conformare e orientare tutti gli atti e gli sforzi delle modalità operative del sistema carcerario; a questo dovrebbero mirare ancora di più i diversi soggetti coinvolti e coinvolgibili, interni ed esterni; dal volontariato, che tanto sta già facendo; ai diversi operatori singoli e ai soggetti istituzionali. A questo occorre fare riferimento sollecitando gli adeguamenti legislativi per migliorare il sistema penitenziario, ricordando la promozione dei percorsi attuativi della giustizia riparativa.

Luciano Conti

 Una piacevole sensazione

Ho iniziato a studiare la Bibbia all’età di trentatré anni dopo aver deciso di cambiare vita rispetto all’attività di orchestrale che svolgevo da una decina d’anni. Ero molto lontano da un ideale di norme e principi morali e, fino a quel momento, non avevo mai creduto in Dio. Alzavo spesso lo sguardo al cielo di notte e mi era capitato di osservarlo in luoghi lontani dall’inquinamento luminoso presente in ogni città. Mi chiedevo cosa ci fosse dietro questi sbalorditivi cieli pieni di stelle. Mi piaceva viaggiare e mi soffermavo, rimanendo incantato, di fronte a paesaggi che mozzavano il fiato per tutto quello che esprimevano, per tutto quell’equilibrio della vita presente in varie forme e in ogni condizione. Poi questo avvicinamento alla fede aveva colmato un vuoto che avevo dentro e rispondeva ad alcune mie domande. Ero però travolto dalla frenesia della vita di tutti i giorni, dal perseguire obiettivi meramente materiali, dalla mia ambizione per il raggiungimento di una posizione socio-economica di rilievo, allontanandomi così da questo percorso cristiano. Questo volermi “accostare a Dio” era però sempre rimasto dentro di me, non avevo mai smesso di credere, ma avevo smesso di confidare nella mia capacità di attenermi a un “modello cristiano” pensando di essere inadeguato. Infine, nonostante la mia fosse una vita “normale”, fatta di lavoro e di domeniche passate in famiglia, uno stato di eccessiva oppressione mi aveva portato a commettere ciò che aprì per me le porte del carcere.
Questa condizione, non imponendomi quei ritmi esasperati che mi travolgevano fuori, mi permette di soffermarmi su molte cose, ed il mio rammarico è non aver avuto l’opportunità e non averlo voluto fare prima. Questo mi ha permesso di fare un percorso di riconciliazione con me stesso con tutte le fatiche del caso, dovendo superare quel sentimento di indegnità che in alcuni momenti mi invade.
Oggi devo fare i conti con una sensazione di impotenza e inutilità. La “ricompensa” non può basarsi solo sul risultato che una persona ottiene, ma su un impegno ed un sentimento interiore che non è misurabile dall’essere umano. Spesso mi sento dire che il percorso di fede che sto affrontando ha il sapore dell’opportunismo, che avrei dovuto farlo quando ero fuori da qui, che seguo la parola di Dio perché non ho alternative. Mi sono domandato se ci sia un po’ di verità in questa affermazione. In fondo sono molte le persone che invocano Dio solo in punto di morte. Ma non si può continuare a danzare nell’eterno quesito su quale sia la motivazione per cui oggi mi rivolgo a Dio. Forse un giorno, coerentemente con la mia speranza, mi aspetterò un’adeguata retribuzione per la fede che sto manifestando, ma oggi di certo c’è che il cammino che ho intrapreso sta producendo dentro il mio animo una piacevole sensazione: quella di sentirmi bene con me stesso per il cammino intrapreso, oltre al piacere che provo cercando di fare qualcosa di apprezzabile agli occhi di Dio.

Effedie