Revisione di vita in tangenziale

Dubbi e perplessità esistenziali di un mattino d’inverno

 di Fabio Colagrande
giornalista di Radio Vaticana

Discinta e ieratica

«Dimmi che dio vuoi e ti dirò chi sei». La scritta campeggia su un enorme cartellone pubblicitario che ritrae una splendida ragazza discinta, sistemato all’incrocio fra la tangenziale e la strada che sto percorrendo in macchina per andare in ufficio. Lo fisso ancora assonnato e penso che alle sette e mezza del mattino quell’immagine non mi suggerisce dubbi trascendentali ma certezze carnali. Poi, un concerto di clacson dissonanti alle mie spalle mi avverte che è scattato il verde e debbo muovermi.


Però, lo slogan è efficace, mi ritrovo a pensare mentre sfreccio nel traffico. In fondo, l’essere umano ha sempre proiettato se stesso e i suoi “desiderata” sulle figure divine che la sua cultura crea. Noi cristiani europei ci immaginiamo il creatore come un uomo anziano, barbuto, di carnagione bianca: il prototipo del saggio patriarca nell’iconografia medievale. Hollywood, invece, gli ha dato il volto afro-americano, politicamente corretto, di Morgan Freeman. I controriformisti, con rigorismo geometrico che nella sua severità anticipava la rivoluzione estetica di Picasso, come un triangolo occhiuto. Ci piace da sempre pensare a un dio padre, sapiente, buono ma severo, che ci guida e controlla - quasi un “Grande Fratello” ante litteram - e così lo raffiguriamo.
«Dimmi che dio vuoi e ti dirò chi sei». Quella pubblicità mi è entrata nella testa e mi mette in crisi. Sono fermo all’ennesimo semaforo e rifletto sul dio che mi sono costruito in cinquant’anni di tanta fede e poca pratica. Mi accorgo con spavento che il mio dio è senza volto. Dialogo più facilmente con un Gesù che assomiglia a quello di Zeffirelli o con una Madonna dal viso dolce e la veste azzurra. So che entrambi mi ascoltano e mi sanno accarezzare. A volte, nel silenzio di una cappella, percepisco il sommesso sospiro dello Spirito. Ma Dio Padre, no. Lo immagino lontano, troppo impegnato a salvare il mondo per dar retta a una mezza cartuccia come me. In fondo, anche mio padre quando ero piccolo non aveva mai tempo per me. Fuori inizia a piovere.

Severo o piacione

Aziono il tergicristallo cigolante della mia utilitaria e intanto penso se il mio dio personale è severo oppure no. Corrisponde all’immagine evangelica del padre misericordioso esaltata da papa Francesco? Colui che attende per ore il figliol prodigo sulla porta di casa, pronto ad abbracciarlo, nonostante tutto? Penso di sì. Non sono un gran peccatore, non ne ho il coraggio, né la fantasia. E credo che il Padre Eterno non fatichi a perdonare le mie vanterie mascoline, i miei borghesi egoismi, le mie pigrizie italiche. Ma il mio dio perdona anche i dittatori, i mafiosi, gli assassini? Lo immagino non legalista. Capace di discernere la situazione e applicare la legge senza disperderne il fine ultimo della “salus animarum”. Di fronte al peccatore pervicace non credo si accanisca. Non lo vedo godere intimamente mentre lo sbatte all’inferno. Per lui, anzi, è una sconfitta. Mi figuro la sua espressione di malcelato dolore, davanti alla scelta convinta di evitare il suo abbraccio. Poi, scuote la testa deluso: «Gli uomini, non li capirò mai!».
Questa volta mi accorgo subito che è scattato il verde. Lascio piano la frizione e premo leggermente l’acceleratore: l’asfalto viscido è traditore. Piove forte e non vedo un tubo. Un momento… ma cosa dice il mio dio del fatto che non sono un bravo praticante? Come giudica le mie assenze alla messa domenicale? Cresce la sensazione che io mi sia costruito una divinità su misura. Il mio dio, infatti, non esige che io rispetti le norme canoniche e morali di Santa Madre Chiesa. Chiude un occhio, si fa una risata di fronte a certi “fariseismi”, a certa burocrazia clericalista. Comodo, eh? Eppure io lo sento così. Il mio Dio mi raggiunge direttamente, senza mediazioni, né apparati. Mi chiede integrità morale, non puntualità in parrocchia. Scalo le marce, per affrontare la salita. E intanto penso che mi sono fabbricato un dio troppo compiacente, quasi complice. Che vergogna!
Anche il corso oggi è intasato. Rallento e m’incolonno pazientemente; prima di mezz’ora non sarò al lavoro. Meno male che oggi sono uscito prima.
Improvvisamente, accanto a me si materializza la sagoma di Giuliano Ferrara. Indossa un impermeabile bagnato e spiegazzato e ha un toscano spento fra i denti. Mette alla prova gli ammortizzatori della mia berlina. Sogghigna sotto i baffi. «Facile costruirsi un dio catto-comunista, che ignora i valori non-negoziabili e scaglia la sua ira solo davanti alle ingiustizie sociali dalle multinazionali. Un dio che se la prende con i ricchi e potenti e non con te che sei solo l’umile, ignara, pedina di un grande gioco. Hai fatto proprio di tutto per metterti la coscienza a posto, malandrino!». Sto pensando a una replica, quando nello specchietto retrovisore vedo il volto scuro di Antonio Socci. Un ricciolo nero e umido sulla fronte, mi guarda torvo dal sedile posteriore. «Il tuo è un dio piacione, che non ti crea problemi», mi sussurra. «Un dio banderuola, buono per ogni stagione, frutto del tuo relativismo e del tuo sincretismo religioso. Sono sicuro che pensi sia lo stesso dio che pregano ebrei, musulmani e buddisti! L’avete globalizzato, svilito e svuotato, povero Padre Eterno!». Ferrara annuisce e ridacchia.

La paga dell’ultimo vignaiuolo

«Ragazzi - sbotto - va bene tutto, ma siete nella mia macchina! Lasciatemi almeno il diritto di replica. Non sarà che siete voi due che avevate bisogno di allestirvi un dio cattivone, implacabile e punitivo? Una divinità su cui trasferire le vostre aspirazioni segrete di dominio?». Ferrara continua a ridere e Socci sbuffa insofferente. Mi sale la pressione. «Come fate a essere sempre così sicuri di tutto? A fare la morale a noi altri mortali?». Mi accorgo che quest’ultima frase l’ho quasi urlata. Accanto a me, un signore coi baffi, alla guida di una Smart, mi guarda preoccupato. Sto parlando da solo in macchina. Ferrara e Socci sono spariti. Resta solo la puzza di toscano bagnato.
Francesco ha insistito durante il Giubileo con la condanna dei dottori della legge. Sono gli unici per i quali sembra non avere misericordia neanche lui. Quelli che non ci stanno a vedere i divorziati-risposati ricevere l’Eucaristia o il papa che va a trovare i preti che hanno lasciato l’abito per mettere su famiglia. Quelli che non hanno digerito l’estensione a tutti i sacerdoti della facoltà di perdonare il peccato di aborto. I dottori della lettera che sulla lavagna vogliono ci sia una chiara riga di gesso a separare buoni e cattivi. Non vogliono confusione. Il loro dio è fiscale. Il perdono è concesso solo dopo aver consegnato alla cassa - negli orari e nei giorni stabiliti - il modulo di pentimento, debitamente timbrato e vidimato dalle gerarchie incaricate.
Logico che un dio così li rassicuri, rifletto mentre cerco parcheggio. Come biasimarli? È un dio razionale, affidabile e giusto. Ma quello descritto dalla Bibbia gli assomiglia davvero? Non è quello che dà la stessa paga anche ai vignaioli che hanno lavorato di meno? O si fa profumare i piedi da una peccatrice? Quello che non rispetta il precetto del sabato?
Il mio solito posto è miracolosamente libero. Posteggio e guardo l’orologio: come al solito sono in ritardo. Affretto il passo e intanto mi fisso tre appunti nella memoria. Rileggere la Bibbia per capire se quel Dio assomiglia davvero al mio. Cambiare il tergicristallo. Evitare la caponata a cena: provoca allucinazioni mattutine.