Non lusso, ma necessità

Il dialogo tra religioni, nello spirito di Assisi, deve sfarinarsi in esperienze di vita

 di Paola Springhetti
giornalista e docente di Teoria e tecnica del giornalismo presso la Facoltà di scienze della comunicazione sociale della Pontificia Università Salesiana di Roma

 Trent’anni dopo

Trent’anni dopo lo storico incontro interreligioso di preghiera, convocato da Giovanni Paolo II ad Assisi, molte cose sono cambiate. Era il 27 ottobre 1986. Il mondo era ancora diviso dalle ideologie, le religioni tra loro molto distanti, i fenomeni migratori in Europa molto limitati e nessuno credeva davvero che la pace fosse possibile. Quell’evento fu dirompente perché dopo di esso non fu più possibile dire che il dialogo tra le religioni è impossibile.


Ora viviamo in un mondo globalizzato, le ideologie sono state spazzate via dal pensiero unico neoliberista, una crisi economica devastante per l’Occidente ha rimesso in discussione molte certezze, i flussi migratori sono esplosi e hanno reso le nostre società multietniche e multiculturali, dobbiamo affrontare il terrorismo. L’unica cosa che non è cambiata è che nessuno - o quasi - crede che la pace sia possibile.
Inoltre, sempre più persone sono convinte che le religioni implicano conflitti, guerre e persecuzioni: idea questa un tempo condivisa da chi assumeva ideologie marxiste e oggi diventata opinione comune, a causa soprattutto di Daesh e della violenza e distruzione che porta con sé.
I teologi e gli esperti di Sacre Scritture ci insegnano che in ogni religione si possono rintracciare germi di violenza - in passato sistematicamente le guerre erano combattute nel nome di Dio, anche quando avvenivano tra cristiani o tra cattolici - ma soprattutto si possono trovare insegnamenti spirituali, che indicano la strada della nonviolenza e invitano i credenti a diventare operatori di pace. Ad esempio, la famosa regola aurea («Tutte le cose dunque che volete che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle loro», Mt 7,12) si ritrova, con poche sfumature diverse, in tutte le religioni. Ogni religione giustifica diversamente il richiamo alla pace (l’armonia con il cosmo, quella tra l’uomo e la natura, l’esempio di Cristo o di figure profetiche, lo spirito di comunità…), ma comunque questo richiamo c’è, ed è fondante.

 Fiducia nella preghiera

Però la storia la fanno gli uomini, e ci possono essere uomini che scelgono di essere buoni e di fondare la loro vita sulla pace, e uomini che scelgono di essere cattivi e di fondarla sulla violenza, che usano per raggiungere i propri obiettivi. Come ha detto papa Francesco sul volo per Cracovia: «Non c'è guerra di religione, c'è guerra di interessi, per i soldi, per le risorse naturali, per il dominio dei popoli». Ma per raggiungere questi obiettivi quegli uomini hanno bisogno del consenso della gente, delle popolazioni, e appellarsi alla religione - radicata nell’identità dei singoli e delle comunità - può essere in questo senso molto utile e efficace.
Nell'appello finale dell'incontro “La pace è il nome di Dio”, avvenuto a Roma il 10 ottobre 1996, nel decennale di Assisi, si legge: «Di fronte alle guerre che in questo periodo hanno travagliato il mondo, abbiamo posto la nostra prima fiducia nella preghiera. Dio ascolta le invocazioni, piega i cuori dei violenti, dona la saggezza e la giustizia, conforta i cercatori di pace. Abbiamo fatto memoria delle vittime dei conflitti e delle ferite ancora aperte. Solennemente ripetiamo l'invito alla pace. Le religioni non spingono all'odio e alla guerra, non giustificano lo spargimento del sangue innocente. Le religioni non vogliono la guerra ma la pace! Non c'è santità nella guerra. Solo la pace è santa! (…) Ci rivolgiamo a tutti coloro che uccidono o fanno la guerra in nome di Dio. Ricordiamo loro che la pace è un nome di Dio (…) Nessun odio, nessun conflitto trovi nella religione un incentivo».
È una vera e propria agenda, per ogni cittadino credente, qualunque sia la sua fede: pregare per la pace; fare memoria delle vittime e delle ferite ancora aperte, fare la pace, nel nome della propria fede. È un’agenda importante, perché oggi la pace - e il contributo che ad essa possono dare le religioni - non è più solo una questione di dialogo ecumenico in senso tradizionale, delegato ai teologi e ai vertici delle chiese. Siamo una società multietnica, in cui convivono le culture e quindi anche le religioni, quotidianamente, nelle aule scolastiche, sui pianerottoli dei condomini, sugli autobus affollati delle grandi città.
Quando papa Francesco ha detto che oggi è in corso la terza guerra mondiale, ha posto l’accento su quei tanti conflitti che non sono più, come avveniva in passato, guerre tra Stati: se si esclude la questione Daesh, si tratta in genere di conflitti tra gruppi diversi interni ai confini, che non si risolvono con gli eserciti e che si trascinano per anni proprio perché non è un terreno quello che bisogna conquistare, ma la capacità di convivere.

 Esperienze di condivisione

Il segretario di Stato, cardinale Parolin, sull’“Osservatore Romano” del 27 ottobre scorso ha scritto: «Le religioni non hanno la forza politica per imporre la pace ma, trasformando interiormente l’uomo, invitandolo a distaccarsi dal male, lo guidano verso un atteggiamento di pace del cuore». Ogni religione, nessuna esclusa, «ha un’energia di pace, che deve liberare e manifestare».
Ha bisogno di questa energia di pace la nostra società, che ogni giorno, spinta dalla paura e strumentalizzata da forze politiche in cerca di facili consensi, rischia di disgregarsi sotto la spinta di conflitti a volte creati ad arte.
In questo senso, ci sono esperienze bellissime in cui credenti di diverse fedi contribuiscono insieme al bene della comunità. Penso all’ospedale Santo Spirito di Roma, dove i rappresentanti delle comunità religiose presenti nella capitale (tante!) hanno lavorato insieme per migliorare l’accoglienza degli stranieri in ospedale e il loro diritto alla salute, capofila l’associazione Religions for Peace. Penso al Coro Vincenzo Ruffo Città di Cervignano del Friuli, che ha realizzato una “Salmodia della pace” mettendo in dialogo attraverso canti e letture le cinque religioni monoteiste. Penso ai giovani cinesi di Prato, che hanno portato il loro camion di aiuti nelle zone terremotate dell’alto Lazio e ai tanti, tanti stranieri che fanno volontariato nelle associazioni di tutti i tipi. Penso all’esperienza dei corridoi umani, che hanno permesso alla Comunità di Sant'Egidio, alla Federazione delle Chiese Evangeliche, alla Tavola Valdese, lavorando insieme, di portare in salvo un numero significativo di profughi.
Esempi grandi e piccoli: se ne potrebbero trovare altri mille, in giro per il Paese. Carità, ambiente, difesa dei diritti umani fondamentali sono terreni comuni su cui fedeli di diverse religioni possono lavorare insieme, costruendo un dialogo, anzi una convivenza che parte dal basso e che rende tutti migliori. Perché il dialogo, oggi, non è più un lusso, ma una condizione indispensabile per vivere in pace.

 

 

 Dell’Autrice segnaliamo:
Donna fuori dagli spot
Ave, Roma 2014, pp. 176