La fede che io non ho

Lettura della realtà giovanile e del suo rapporto con la religione

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

Una dimensione strutturale

Cosa è la religione per i giovani di oggi? Ha ancora un senso o davvero, come sembra, è un relitto del passato da abbandonare? Provo a ricavare una risposta da trentuno testi, scritti dai miei studenti, lo scorso anno, come prova d’esame, sul tema “I giovani e la fede”, che una mia collega di italiano ha dato alle due quinte in cui insegna. Con alcune sorprese, qualche conferma e molte possibilità aperte.


La prima sorpresa che mi colpisce è la loro idea sulla religione intesa come dimensione strutturale dell’essere umano e del loro approccio a tale dimensione. «La religiosità è parte integrante della vita di ogni giorno, insita nella natura umana». «Mi piacerebbe trovare risposte alle domande che ho, ma è inevitabile che la vita mi porti a credere o non credere». E ancora: «Sembra che molti giovani preferiscono non farsi domande e vivere come viene, ma io sono convinta che sia solo un’apparenza». La secolarizzazione, cioè la scomparsa della dimensione religiosa dalla vita, è finita. Anche se molti adulti non se ne sono accorti.
Ma appena si prova a dare un contenuto più preciso a questa dimensione spirituale che ritorna, ci si accorge della differenza rispetto a ciò che ci potremmo aspettare. «Non ci manca l’interesse per il sacro, ma non ci identifichiamo in una religione e nei suoi credenti». O ancora: «Per i giovani il senso e la spiritualità non sono più attese dalla Chiesa». O anche: «Io coltivo un rapporto individuale con una dimensione divina al di fuori di una religiosità tradizionale». Cioè la religiosità non è più vivibile in una dimensione religiosa istituzionale, ma altrove.
E questo ci aiuta a capire un terzo dato. «Di fronte alle domande che ci passano è giusto cercare una risposta, ma è ovvio dedurre che l’uomo non potrà mai trovare risposte a tutto e si dovrà accontentare di supposizioni, oppure ammettere di non poter trovare risposte. E a volte è bene accontentarsi delle poche risposte che troviamo senza voler sempre una spiegazione a tutto. Ci si deve arrendere al fatto che non sia poi così importante la risposta, e che sotto a tutto c’è qualcosa quasi impossibile da capire».
In questa frase sta tutta la differenza postmoderna sulla ricerca del senso. Oggi lo spazio per il senso si è ristretto solo alla possibilità di essere atteso, come qualcosa di impossibile da rintracciare o creare a partire dall’uomo stesso, come dono che la vita stessa forse ci vorrà offrire, ben al di là delle tradizioni e delle istituzioni.
Ma invece di accodarmi a coloro che piangono su questo dato, a me fa figura che loro abbiano una “posizione spirituale” particolare. Quella di chi sa con chiarezza che l’uomo è limitato e che il delirio di crearsi da soli un senso finisce male, e perciò si “accontenta” restando di fronte al mistero in attesa che qualcosa si riveli. Certo c’è anche chi non resta di fronte al mistero. «Oggi il bisogno di risposte che siano concrete impedisce lo sviluppo delle religioni. Ciò che non è attuabile realmente non ha senso. Dunque ci si rassegna ad un percorso di vita di dolore senza senso». Ma non sono la maggioranza, come invece spesso si crede.

 La rigidità della Chiesa

La seconda sorpresa è la categoria entro la quale la fede viene collocata dai giovani. «La Chiesa vive entro una sfera troppo rigida, basata sulla moralità. Dio rischia di essere un accontentarsi. Accontentarsi di risposte già date, di pensieri già elaborati, di codici di comportamento preimpostati. Ma la fede non è questo. È una storia d’amore, come dice papa Francesco». Facile la citazione, visto che era tra i testi proposti per svolgere il tema. Ma coglierla, tra tutto il resto dei testi proposti e metterla al centro del proprio pensiero sulla fede è indicativo. La fede per loro non è “in primis” un capire, un comprendere idee, ma vivere una relazione, una storia d’amore.
E qui forse si può intravvedere una serietà e corposità della fede che spesso noi ci sogniamo e che li spinge a rinnegare questa ricerca quando davanti a loro vedono incoerenze e falsità evidenti. Nonostante questo, però, la loro ricerca resta aperta: «Non credere è difficile quanto credere. È un processo di decostruzione personale, di scomposizione di sé stessi per poi ricostruirsi. Io mi sento di approfittare del perdono di Dio, per autogiustificarmi. Perché prendo in considerazione la sua Parola solo quando mi fa comodo».
Su questa linea, però, due ostacoli notevoli fermano spesso l’accesso alla fede per loro. Il primo è l’enorme difficoltà di passare da un’esperienza emozionante di fede, che molti assaggiano ancora, ad un sentimento coltivato della stessa. Manca loro qualcuno che indichi come si trasforma l’emozione, intensa e bruciante sulla pelle, in un sentimento, un sentire stabilizzato e tranquillo sul fondo dell’anima. Le tre ragazze di queste due classi, che hanno partecipato all’ultima GMG, non citano mai questa esperienza nel tema, parlando della fede. Solo un caso? Non credo. E su questo lo spazio di lavoro pastorale è ancora enorme.
Il secondo ostacolo è la quasi impossibilità di appoggiarsi alla Chiesa di cui loro mediamente fanno esperienza. E si badi, non per questioni più o meno ideologiche come poteva essere nel “Cristo sì, Chiesa no” degli anni Settanta e Ottanta. Ma perché la qualità della relazione e lo stile ancora molto “verbale” con cui viene loro proposta la fede da questa Chiesa, gli impedisce di sentirsi riconosciuti in essa. «Abbiamo bisogno di credere in qualcosa, ma qualcosa che creda in noi; di qualcosa di concreto, qualcosa che non si fermi solo alle parole ma vada oltre».

 Con Dio un rapporto di piena libertà

E che cosa pensano di Dio? Che immagine ne hanno? Anche qui forse una sorpresa. «Lui non vuole il nostro male, ma solo insegnarci qualcosa di buono». O ancora: «Dio è l’amore che crea la vita. È tutto il bello del mondo messo insieme». Frasi che, pur in formulazioni diverse ho trovato in almeno la metà degli elaborati. E frasi che spesso si fondono nell’idea che più di ogni altra riassume, per loro, l’essenza di Dio: «Dio ama la vita, il mondo e tutto quello che c’è. Ama anche gli uomini, anche quando fanno cose che non vanno fatte. Amare un’altra persona, perciò, è come consolidare il rapporto con Dio, perché tutti siamo sue creature».
Questa frase dice molto bene come il tono emotivo di fondo sotto cui Dio è percepito da loro sia quello della bellezza e della bontà, sintetizzate nell’esperienza dell’amore. E invece, in genere, chi tra loro ancora utilizza la razionalità come strumento privilegiato per l’accesso a Dio, finisce per non arrivare alla fede: «Non si crede in Dio perché la realtà è troppo piena di contraddizioni per essere creata da lui. A mio parere Dio ad Auschwitz non c’era. Perché non ha fermato questo dolore?». Che conferma come il piano antropologico in cui loro possono fare esperienza di Dio non è più dato dal mondo razionale e dal rapporto tra pensiero e Dio, ma dal mondo relazionale, e in esso dall’esperienza dell’amore. L’aristotelico Dio “pensiero di pensiero”, se esiste, per loro è sostituito dal più biblico “amore di amore”.
E questo forse spiega come la seconda caratteristica di Dio, che loro ci mostrano, è quella di non essere compiutamente spiegabile: «Anche se la gente vorrebbe spiegare Dio, lui non si spiega, se no che Dio sarebbe?» O anche: «Non si può spiegare Dio. Ci si crede e basta». Che, formulate così, prestano il fianco davvero ad una fede irrazionale, ma in verità segnalano solo come a questi ragazzi faccia più figura il mistero di Dio che non la sua comprensibilità. Tanto che poi restano aperte in coloro che credono le domande tipicamente razionali su di Lui: «Ma chi lo ha creato Dio?». O ancora: «Come fa ad essere dappertutto?». Perciò la mente non è fuori gioco, ma semplicemente arriva dopo.
La conseguenza che ne viene per loro è che il rapporto con Dio si configura, molto più che per noi, sotto il segno della gratuità libera. A differenza dei moderni, quanti tra questi post-moderni credono in Dio lo fanno non per bisogno, non per necessità logica, ma come valore aggiunto gratuitamente: «Non penso che Dio possa risolverci i nostri problemi, le risposte dobbiamo trovarle da soli». Oppure: «Spesso sono portata a pensare ai credenti come persone dipendenti da Dio. Come se Dio fosse una scusa per andare avanti nella vita e affrontare le difficoltà».
Come a dire che la loro vita “funziona” anche senza Dio, ma se lo accettano, questa vita prende un valore in più che può finire anche per cambiarla profondamente. «Non so davvero cosa farò finita la scuola. A volte penso che potrei anche fare il missionario in Africa. In fondo stare qui a fare quello che fanno tutti non ha molto senso, perché sai già in partenza come va a finire. Lì almeno non lo sai. E magari fai proprio del bene. Certo ci vuole una fede grande, che io non ho».