Riconoscere e scegliere: i verbi della fraternità
di Dino Dozzi
Direttore di MC
Con un’ottantina di frati cappuccini delle Marche, della Toscana e dell’Emilia-Romagna, ho partecipato a tre giorni di formazione a Firenze su “fraternità e speranza”. Mi hanno colpito soprattutto le relazioni di due professoresse, una cilena, Claudia Leal Luna, teologa moralista, e una italiana, Elena Palladino, sociologa, entrambe sposate e con figli. Hanno parlato a noi frati un po’ “dal di fuori”, e con sensibilità e terminologia un po’ nuove rispetto alla nostra tradizione. Ma tutti abbiamo avvertito che parlavano anche di noi, proprio di noi, della nostra fraternità e della nostra speranza. Riporto qui alcune loro riflessioni, che ritengo vere e utili per tutti.
Nel primo film di Avatar c’è la scena in cui il marine Jack Sully impara tutte le usanze del popolo Na'vi: incontrandosi essi dicono “io ti vedo”: è un saluto di riconoscimento. Paul Ricoeur scrive che l'esigenza di ogni individuo è quella di essere riconosciuto nella propria identità autentica. Siccome siamo tutti diversi, unici e irripetibilie, e c'è una distanza irriducibile fra noi e tutti gli altri, l'unico modo per percorrere questa distanza è quello di riconoscere l'altro da me, non come me, ma per quello che è. Negando questo riconoscimento, si condanna l'altro, cioè colui che non è riconosciuto, ad essere “scarto”. Il riconoscimento è alla base dell’avvio e della stabilità delle relazioni. Se non si viene riconosciuti per quello che si è, le relazioni non possono essere stabili. C'è una differenza tra rivendicazione e riconoscimento: la rivendicazione è il classico “io sono fatto così”, voglio essere così e voglio che tu mi accetti così. Il riconoscimento invece viene dagli altri e innesca una serie di dinamiche che modificano il senso del sé, proprio a partire dal riconoscimento da parte degli altri. Attraverso il riconoscimento vicendevole la fraternità diventa una rete di persone tutte diverse fra di loro, che però riescono a collegarsi positivamente, in modo vero e creativo. E il riconoscimento va ripetuto ogni giorno, perché è vero che siamo sempre gli stessi, ma cambiamo nel tempo: basta guardare i nostri corpi. Emergono lati nuovi del nostro carattere, siamo complessi, siamo un mistero. Quindi dobbiamo continuamente riconoscerci, per accettarci vicendevolmente e per aiutarci a far fiorire il meglio di noi stessi.
Il paleoantropologo Ludvik Slimac si chiede che cosa è successo fra 35 mila e 50 mila anni fa, quando i Neanderthal che coprivano il globo terrestre, sono stati soppiantati dai Sapiens. I Neanderthal esaltavano le unicità di ciascuno: tutti i loro manufatti sono diversi l’uno dall’altro. I Sapiens, invece, hanno manufatti tutti uguali: sono stati capaci di organizzarsi, mettersi insieme, per avere un unico obiettivo, per esempio colonizzare un territorio, abitare in un certo posto. Slimac sostiene che questa capacità sapiens di mettersi insieme per avere un obiettivo mostrava però l'altra faccia della medaglia, cioè la rigidità, l'omologazione: se tu non stai nel gruppo e non fai quello che il gruppo vuole, sei fuori, perché sei pericoloso, perché distruggi la compagine che persegue quel determinato obiettivo. La forza più grande che abbiamo è quella di metterci insieme per un unico obiettivo, ma è la stessa che ci rende molto difficile accogliere i fuori norma.
Nel 1945 sono state costruite due statue e sono state esposte nel museo nazionale di storia naturale a New York. Raffigurano un giovane uomo di circa 25 anni e una giovane donna di circa 22, la statua dell'uomo si chiama Norman, la statua della donna si chiama Norma. Le misure sono quelle della media degli uomini e delle donne in America. Segnano la fine del sogno di essere come uno è, perché nessuno corrisponde esattamente a quelle misure, nessuno risulta normale. E questo criterio non è solo fisico, perché la normalità, nel momento in cui viene standardizzata, diventa un criterio morale con cui io dico che quello che è normale è giusto, i fuori norma sono sbagliati; e questa operazione - chi è un “outcast” è sbagliato - la facciamo costantemente: clic, sei nella media; clic, sei fuori della media. Con questo tipo di occhiali pretendiamo che tutti siano là dove c'è la maggioranza; se tu non sei nella maggioranza sei sbagliato.
Tutto questo vale anche nelle fraternità: ritenere corretti solo coloro che stanno nella media, nella norma, significa togliere speranza. Perché nella media e nella norma non ci sta esattamente nessuno. Nessuno aveva e ha le misure esatte di Norman e di Norma. Occorre accettare che siamo diversi e che in questa diversità ci possiamo aiutare tutti. Il letto di Procuste e i forni crematori non sembano le soluzioni migliori… In una comunità c'è sempre dissenso e c'è sempre critica interna. Questa critica interna va considerata come un tumore che vogliamo spingere verso la periferia e magari estipare oppure riusciamo a offrire alla critica interna la possibilità di essere una bandiera che chiede perfezionamento, che chiede rinnovo, che chiede mutamenti, aggiornamenti, adattamenti? Come si può procedere? Questa situazione si presenta molto spesso e va gestita per la crescita delle relazioni fraterne.
Il “come” definisce le relazioni e lo stile delle relazioni, e anche la pace delle relazioni o la guerra delle relazioni. Nelle fraternità e nelle famiglie, al come facciamo poca attenzione, perché pensiamo che vivere insieme e condividere lo stesso tetto semplifichi il come. E’ vero il contrario: le relazioni in famaiglia o in fraternità sono delicatissime, basta un nulla per romperle. E qui si inserisce la questione del carattere. “Io sono fatto così”: il “come” ci relazioniamo in fraternità pensiamo che dipenda dal nostro carattere, che riteniamo non modificabile. Questo non è vero. Custodire la speranza è custodire la fraternità. Siamo noi che dobbiamo scegliere come porci in relazione con gli altri. Non è una questione di carattere, è una questione di scelta. La fraternità e la speranza vanno scelte. Questo significa che si sceglie di parlare e si sceglie il modo in cui parlare, si sceglie di tacere e si sceglie il modo in cui si tace. Anche non scegliere è una scelta. In realtà tutto, lo stare insieme, il costruire bellezza e costruire pace, che sono tutte espressioni della speranza, tutto va scelto. Ogni giorno. Il “come” dipende sempre da noi, va sempre scelto da noi, senza scaricare la responsablità sul nostro carattere o sugli altri. Fraternità e famiglia, più che uno stato, sono una scelta quotidiana.