Come rabdomanti del Regno di Dio

 di Dino Dozzi
Direttore di MC

C’è stato un tempo – molto lungo, che arriva fino a ieri e forse fino ad oggi stesso – in cui della Bibbia venivano apprezzati soprattutto la legge, i comandamenti, la morale. Mosè che scende dal monte Sinai con sotto braccio le due tavolone di pietra era il simbolo più diffuso della rivelazione di Dio all’umanità. E sarà questa immagine a filtrare anche il discorso della montagna, pur con una decisa riduzione del numero dei comandamenti. Oggi i libri biblici più studiati e apprezzati sono altri: Giobbe con le sue domande poco politically correct, il Cantico dei Cantici con le sue descrizioni erotiche, Sapienza con il suo buonsenso, Qoèlet con il suo disincanto quasi cinico. Questi ultimi sembravano libri capitati un po’ per caso nell’elenco sacro, ora vengono ritenuti centrali ed estremamente rivelativi. Ma rivelativi di che cosa? Rivelativi dell’umano e del significato divino in esso presente.
Il quotidiano dei vescovi italiani continua coraggiosamente a proporre di cercare “la fede dove non te l’aspetti”, cioè fuori dai sacri tradizionali recinti dogmatici e liturgici, raccogliendo così l’invito di Papa Francesco ad aprire le porte, non solo e non tanto per permettere a tutti di entrare in chiesa (e già questo ha qualcosa di nuovo), quanto piuttosto per incoraggiare chi era dentro ai sacri recinti all’ombra delle proprie cattedrali ad uscire per ritornare nell’umano a scoprirvi la presenza del divino. Prima ancora che nel pane e nel vino consacrati, o in perfettissime formule dogmatiche, il Figlio di Dio si è fatto presente nell’utero di una donna. Prima di fondare la Chiesa ha espresso la sua presenza in relazioni quotidiane nella famiglia di Nazaret e poi per le strade di Palestina con pescatori e pastori, bambini e adulti, uomini e donne che facevano fatica a rendersi conto di diventare così essi stessi luoghi teologici, sacramenti di rivelazione e di salvezza. Il divino è venuto ad abitare stabilmente l’umano e le ultime parole di Gesù promettono di restarvi per sempre. È lì che Dio andrà cercato d’ora in poi, non nell’alto dei cieli.
La Chiesa è invitata con forza da papa Francesco ad uscire da sé stessa, intesa come hortus conclusus, circolo di salvati o di perfetti, radunati attorno al proprio campanile che ovviamente è sempre il più alto e il più bello, con un linguaggio che si è fatto sempre più tecnico, per iniziati, per specialisti, lontano dalla strada, dalla casa, dalla piazza, lontano dal linguaggio che Gesù usava con la gente del suo tempo e ancor più lontano dal linguaggio, dai problemi, dalle paure e dagli interessi della gente di oggi. Con questa gente di oggi la Chiesa non riesce più a dialogare. Un dieci per cento ci va ancora in chiesa, ma spesso deve sorbirsi roba vecchia e noiosa, che interessa sempre meno. La Chiesa è inviata ad uscire per entrare nell’umano, per aiutare la gente a riscoprire il divino presente nella vita, nella quotidianità, nella fatica delle relazioni e nella drammaticità delle circostanze. Per sentirsi di nuovo dire non «Tu devi…» ma «Beati voi!».
Sant’Agostino, prima di affidare il compito ai catechisti, li inviava per due anni nei villaggi dove avrebbero annunciato il vangelo, a imparare la lingua di quei villaggi: e non si trattava tanto della lingua parlata, quanto piuttosto dei problemi di quelle persone, delle loro paure e delle loro attese, delle loro gioie e delle loro sofferenze. Solo dopo sarebbero stati in grado di annunciare loro il vangelo, cioè di aiutarli a riconoscere il divino nascosto nella loro vita letta con fede. È quanto l’apostolo Paolo faceva con i primi cristiani delle sue comunità, povera gente come noi, e che lui chiamava «santi, eletti e amati da Dio fin dall’eternità». Questa gente sbarrava gli occhi dalla meraviglia e iniziava così il cammino cristiano.
Il processo sinodale proposto da papa Francesco due anni fa, caratterizzato dall’uscita dalle chiese per ascoltare le persone delle nostre città e del nostro tempo, aveva proprio questo scopo. Ci stiamo accorgendo tutti dell’immane fatica di tale operazione. Ci consoliamo a vicenda ripetendoci che si tratta di un “processo”, quindi l’importante è partire, il tempo è più importante dello spazio, la qualità è più importante della quantità. Il tragico sarebbe perdere tempo e spazio, veder ridursi i numeri e non veder migliorata la qualità o addirittura rendersi conto di non aver preso la direzione giusta. Il Concilio Vaticano II sta per compiere i suoi sessant’anni e ci ha ricordato che la Chiesa è per l’uomo e non l’uomo per la Chiesa: grande riscoperta questa, capace di liberarci dalle ricorrenti tentazioni narcisistiche o trionfalistiche.
«Una Chiesa che non sente la passione per la crescita spirituale, che non cerca di parlare in modo comprensibile agli uomini e alle donne del suo tempo, che non prova dolore per la divisione tra i cristiani, che non freme per l’ansia di annunciare Cristo alle genti, è una Chiesa malata». Sono parole di papa Francesco. Si apre di fronte a noi una straordinaria e provvidenziale stagione di nuova evangelizzazione, che ha bisogno di un linguaggio rinnovato per annunciare il vangelo, per instaurare una nuova alleanza tra fede e umanesimo. Una stagione di “rabdomanti del Regno di Dio” da riscoprire nella nostra umanità. Ben venga allora anche lo scandalo per le bestemmie di Giobbe, per l’eros del Cantico, per il buonsenso della Sapienza e per il cinismo di Qoèlet.