Fredda è la ragione, se non è avvolta nel mistero
di Dino Dozzi
Direttore di MC
Qualche mese fa mi sono trovato con un gruppo di pellegrini a Santiago di Compostela e poi a Fatima. A Santiago ho concelebrato nella grande basilica, e chi presiedeva – il rettore del santuario – ha salutato i vari gruppi di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo: come accade la domenica in Piazza San Pietro. E quanti pellegrini si vedono arrivare a piedi, con zaini, cappelli e bastoni! Ancor più impressionante la marea di persone a Fatima. La sera del 13 maggio l’enorme piazza tra le due chiese, quella vecchia in stile classico e quella nuova modernissima, era stracolma e le candele della processione permettevano di vedere gli occhi lucidi di tanti e aiutavano a non travolgere pellegrini che percorrevano in ginocchio le ultime centinaia di metri. Enormi bracieri consumavano migliaia di candele, facendo salire al cielo offerte e preghiere, e maestoso si elevava il canto dell’Ave, ave, ave, Maria. Il tutto coinvolgente e commovente, senza dubbio. E io mi sono fatto anche alcune domande.
Come mai le chiese si svuotano e queste piazze davanti a santuari sono piene? Quanta fede autentica e quanta superstizione c’è in tutto questo? Che cosa ci trova tanta gente in questi riti quasi pagani? Sono domande che anche altri si sono posti, per esempio a “Uomini e profeti” di qualche mese fa, dove si cercava la soglia tra religione e superstizione, non facilmente identificabile. Il sacro può venire espresso sia attraverso la razionalità sia attraverso il corpo e le emozioni, e possono crearsi due campi contrapposti, tentati di screditarsi vicendevolmente. A me pare di trovarmi al confine dei due campi, con la possibilità – o almeno il desiderio – di cogliere gli aspetti positivi di entrambi. Vengo da studi teologici e biblici e ho passato lunghi anni nell’insegnamento; ma sono anche francescano cappuccino, cioè in un mondo tradizionalmente attento alle ragioni del cuore, alle emozioni, alla corporeità. Credenziali sufficienti per proporre di far ritornare a dialogare testa e cuore, razionalità ed emozioni?
Certo la religiosità popolare ha bisogno di purificazione: non si può correr dietro a tutte le Madonne che appaiono e a tutti i loro messaggini settimanali, dimenticando Vangelo e sacramenti, facendo di Maria una divinità femminile; o diventando schiavi di catene di sant’Antonio basate sulla superstizione e sulla paura della dannazione eterna. Ma poi bisogna riconoscere anche la richiesta di senso religioso e sociale che emerge prepotente da queste manifestazioni. La solitudine e la sofferenza sono cose serie e richiedono di venire verbalizzate ed espresse. Se la liturgia ufficiale non risponde a questa esigenza, si andrà a cercare altrove la risposta. Purtroppo i nostri riti liturgici si sono impoveriti, diventati ostaggio di fredda razionalità, di anonima essenzialità, di asettica esattezza teologica, e molta nostra religiosità ecclesiale si nutre quasi esclusivamente di predicazione morale. La nostra liturgia si è ridotta alla messa, fredda e frettolosa, con simboli diventati muti e omelie sciatte; ha perso il contatto con la terra e con le persone, con la sofferenza e con le domande della vita, con la famiglia e il lavoro quotidiano; ha poco da dire a chi ricerca il senso della vita e della morte. Perché meravigliarsi se questi assetati e affamati cercatori di senso e di consolazione si ritrovano presso altre fonti o ad altre tavole?
Molte sono le istituzioni sociali che hanno perso il contatto con la gente, con le emozioni. Le processioni e le feste patronali da una parte, e le feste di partito dall’altra, tentano di sopravvivere nelle sagre di paese. Il ritrovo serale all’osteria per i vecchi e all’oratorio per i ragazzi, viene in qualche modo sostituito dall’appuntamento allo stadio o in palestra; alla fede religiosa si è sostituita la fede calcistica, comunque sempre meglio della chiusura asfittica nei cosiddetti “social”, che di sociale hanno davvero poco.
La Chiesa fa bene a vigilare sull’autenticità delle manifestazioni del soprannaturale, ma è urgente che recuperi anche la ricchezza religiosa e sociale straordinaria dei suoi riti. Ha fatto bene ad avvicinare la gente ai testi liturgici con l’utilizzo delle varie lingue, ma è importante che non perda la dimensione del mistero. Capire i testi sacri non significa automaticamente capire Dio, sempre provvidenzialmente avvolto nel mistero.
Abbiamo tutti la tentazione delle definizioni precise, dei compartimenti stagni, dei muri insormontabili tra culture e religioni; e poi tra razionalità ed emozioni, tra sacro e profano, dimenticando che l’umano umanizza tutto: molti sono i cibi ma tutti nutrono insieme il corpo e l’anima, la mente e le emozioni. Siamo otto miliardi oggi nel mondo e tutti diversi l’uno dall’altro. Non è facilissimo dire se proprio per tutti è più nutriente una messa domenicale o un’ora con un malato, la lettura di una pagina evangelica o la preghiera al richiamo del muezzin, un corso di specializzazione biblica o un pellegrinaggio a Fatima.
Ogni uomo è un piccolo mistero per gli altri e per se stesso, e ha bisogno di bussare al grande mistero del soprannaturale, non per chiarire tutto, ma per sentirsi riconosciuto nel suo piccolo mistero, nella sua identità unica e profonda. E se questa porta sul mistero non la trova nelle religioni ufficiali, se la creerà da sé, insieme a tanti altri pellegrini, cercatori di senso condiviso. Certo che c’è il rischio di fermarsi a surrogati, ma si tratta di un bene di prima necessità e da sempre si è riconosciuto che necessitas non habet legem. Ed è risaputo anche che tra pellegrini vien quasi naturale la solidarietà e lo scambio di informazioni. Giustamente è stato detto che c’è vera evangelizzazione quando un povero dice ad un altro povero dove tutti e due possono trovare da mangiare.