Dice Nelson Mandela: “Ho imparato che, solo dopo aver scalato una grande montagna, uno scopre che ci sono molte altre montagne da scalare. Mi sono preso un momento per ammirare il panorama splendido che mi circondava, per dare un’occhiata da dove ero venuto. Ma posso riposarmi solo un momento, perché con la libertà arrivano le responsabilità e non voglio indugiare”.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Libertà van cercando

Là dove la vita cambia

 DIETRO LE SBARRE

Un cammino maleducativo

L’arrestato è seduto dentro la macchina dei carabinieri, le sirene suonano di continuo a tal punto da rimbombare dentro la testa di chi vi è dentro.

La volante è ferma davanti a un enorme portone blindato che comincia ad aprirsi lentamente con un suono stridente dovuto alla mancata lubrificazione, ma soprattutto alla pesantezza dell’acciaio con cui è fatto.
Intorno solo mura di cinta altissime di color grigio. I battiti cardiaci dell’arrestato aumentano per la paura di quello che sta per accadere. Non gli sembra vero, ma sta per entrare in un inferno terrestre. Quell’inferno per cui anche Dante Alighieri pronuncerebbe di nuovo «lasciate ogni speranza o voi che entrate». I carabinieri depositano le pistole prima di varcare quella porta, perché in carcere non si può entrare con le armi.
Una volta dentro i carabinieri affidano la custodia dell’arrestato alla polizia penitenziaria. Nell’area dell’accettazione viene effettuata l’immatricolazione del nuovo “giunto” e vengono formulate tutte le domande di rito (nome, cognome, foto segnaletica). Successivamente il medico registra un paziente in più da seguire, dopo aver fatto a sua volta qualche domanda di carattere sanitario. Dopo queste formalità il detenuto viene collocato nel reparto detentivo insieme agli altri reclusi, previa ispezione corporale per evitare che vengano introdotti oggetti non consentiti. La perquisizione consiste nel denudamento, e, come se non bastasse, in un piegamento finale per garantire la massima sicurezza. La cintura, i braccialetti e le collane vengono fatti togliere, perché non si possono tenere. Anche il cellulare e il portafoglio con i vari documenti di riconoscimento vengono ritirati. Così la persona perde la sua identità e diventa un numero di matricola.
In accettazione viene consegnato il kit con lenzuola, federa, coperta, due piatti e posate, ovviamente senza coltello. Se la sorte è favorevole il “nuovo giunto” viene collocato in una cella per due persone, altrimenti viene messo in un “camerone”, in cui si trovano altri 2, 3 o 4 reclusi. I primi giorni servono ad adattarsi al nuovo stile di vita. Quando al mattino si aprono gli occhi, occorre un po’ di tempo per capire dove ci si trova. Per sopravvivere bisogna abituarsi al luogo in cui si è, modificando il modo di fare e il modo di pensare, altrimenti non si riesce ad andare avanti.
Nei primi mesi (anni) di carcere, ossia nella fase processuale, il recluso è soltanto un numero fra i tanti. Non è seguito da nessuno degli operatori dell’amministrazione penitenziaria, nemmeno dagli educatori o dagli psicologi, perché soltanto i detenuti definitivi, ossia che hanno subito una condanna passata in giudicato, vengono seguiti nel percorso detentivo. Gli imputati ancora in attesa della sentenza definitiva sono dunque abbandonati e dimenticati nelle deleterie sezioni detentive.
Tutto il giorno è ozio, nello spazio ristretto della cella. Si potrebbe andare a scuola, ma molti, sperando di uscire, difficilmente sono motivati ad iscriversi. Dietro a queste mura si lavora, se si è fortunati, una volta ogni 6 mesi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Però sono lavori fini a sé stessi. I lavori più validi, che si possono spendere anche fuori, vengono offerti soltanto ai definitivi. Per quanto riguarda, invece, i vari laboratori ricreativi e culturali non vi è né il desiderio di iscriversi né, a volte, la possibilità di essere inseriti.
Nella maggior parte dei casi si tratta di persone arrestate per piccoli reati (spaccio, furto, resistenza a pubblico ufficiale). Vista l’accusa per delitti di lieve entità, di solito la permanenza in carcere è di pochi mesi. Il tempo trascorso dentro non è certo rieducativo, anzi, molti escono più criminali di prima, perché il carcere, come spesso si dice, è l’università del crimine. Purtroppo, infatti, anche dentro qualcuno ruba o spaccia droga. Altri ancora si cimentano nella vendita di psicofarmaci, bene molto richiesto in questo contesto. Il ritorno nel mondo libero senza un lavoro, in alcuni casi nemmeno senza una casa, ma soprattutto con il marchio del carcere addosso, rappresenta un problema più che un’opportunità. La fedina penale non è più pulita. Cosa ci si può aspettare che questi ex-galeotti facciano una volta fuori?
Il mondo è cambiato. Gli amici nel momento del bisogno non ci sono più, i familiari altrettanto. La rete sociale è mutata, non conoscono altro che pregiudicati, incontrati nell’ultimo periodo. La paura del carcere ormai non c’è più, ed anche il timore delle forze dell’ordine è svanito. Dopo poco tempo queste persone ritornano dietro le sbarre, avendo commesso altri reati. Non sarà né la seconda né l’ultima volta, ma l’inizio di un andirivieni da dentro a fuori e da fuori a dentro che toglie dignità alla persona.
È un circolo vizioso dimostrato in maniera molto chiara dai dati della recidiva, che in Italia è del 70%. Questo dato si abbassa significativamente, intorno al 20%, quando vengono offerti strumenti veramente utili alla rieducazione, ed in particolare istruzione, lavoro, assistenza psicologica e attività culturali. I primi anni di detenzione trascorrono più o meno senza un perché, senza un cammino da intraprendere, bloccati nel tempo e nello spazio. Molti, fortunatamente, dopo questa prima fase, decidono che è tempo di muoversi e di intraprendere un percorso rieducativo, capendo che non ci sono alternative, e che non si può far passare il tempo senza far niente tutto il giorno. La Costituzione, come sappiamo, prevede per tutti un processo di reinserimento, un cammino verso un’altra vita. Pochi ce la fanno, altri rimangono fermi nella loro condizione, senza che la pena li aiuti a trovare la strada.

IGLI META

 Ogni giorno

Sono passati molti anni da quando ho iniziato questo viaggio che chiamo "la vita". Ora, superati i 70 anni, mi trovo in una situazione che non auguro al mio peggior nemico. Sono detenuto perché accusato di un atto terribile. Questo evento ha segnato profondamente la mia esistenza e mi ha portato a riflettere sulle scelte fatte e sulle conseguenze delle mie azioni. Durante la mia detenzione, ho dovuto affrontare anche una perdita devastante: la morte di mia figlia per un tumore. Questa tragedia ha aggiunto ulteriore dolore al mio cammino già segnato dal rimorso e dalla solitudine. In questo luogo isolato dal mondo esterno, ho avuto molto tempo per pensare al mio passato e alle scelte che hanno portato alla situazione attuale.
La prigionia è dura ma anche una grande opportunità per riflettere su ciò che è stato fatto e su come migliorare. Presto potrò tornare alla libertà, ma non potrò mai liberarmi completamente dalle catene del rimorso. Sto cercando di costruire una forma diversa di libertà: quella interiore. È difficile trovare pace dentro sé stessi quando si porta un peso così grande. Tuttavia, credo fermamente nell'importanza dell'autoriflessione e nella possibilità di cambiamento personale attraverso l'accettazione degli errori passati. Quando tornerò alla vita fuori da queste mura dovrò affrontare nuovamente le sfide quotidiane con occhi diversi rispetto a prima. Non sarà facile; porterò sempre con me i ricordi dolorosi del passato, ma spero di poter utilizzare questa esperienza per aiutare gli altri ad evitare i miei errori. Il cammino della vita non finisce mai, fino all'ultimo respiro ogni giorno hai l'opportunità di fare meglio rispetto al giorno precedente.
Speriamo che possa esserci spazio nella nostra società per chi cerca redenzione dopo aver sbagliato.

ATHOS VITALI